In questo articolo, il filosofo Marco Maurizi fa i conti con i limiti di un certo pensiero antispecista che continua a strizzare l’occhio al panorama neoliberale e che, di conseguenza, tende a eludere un’analisi sistemica più che mai urgente.
Marco Maurizi è autore di diversi testi e articoli riguardanti l’antispecismo e la questione animale. Tra questi ricordiamo Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà (Novalogos 2011), Antispecismo politico (Ortica Editrice 2022), L’animale pandemico. COVID-19, crisi della razionalità ed ecosocialismo (pubblicato su Voci Sinistre nell’Ottobre del 2021).
La risposta più semplice e corretta che si può dare a questa domanda è no. Ed è anche la risposta più utile che dovrebbe dare sia chi lotta per la liberazione umana, sia chi lotta per quella animale. Conosciamo la vulgata: l’uomo (e l’animale) nasce libero ma ovunque egli è in catene. Eppure ci sono molte ragioni per resistere a questa idea, pur nobile, della libertà “naturale”.
Anzitutto essa è il portato di una tradizione spiritualista, quella che fa coincidere la libertà con il “libero arbitrio”, cioè con una possibilità di scelta incondizionata. La libertà si misura qui come capacità di sottrarsi ad una coazione che da sempre è stata legata alle pulsioni corporee, all’istinto o ai condizionamenti ambientali, ai meccanicismi ereditari ecc. Una libertà dunque che appartiene ad una concezione religiosa dell’atto umano come trascendente l’ordine della natura e che finisce inevitabilmente per scontrarsi con una visione scientifica, sfociando in qualche forma di misticismo (non importa se spiritualista o naturalista).
Inoltre, questo tipo di libertà facilmente si accompagna con l’idea di assenza di vincoli, cioè con una concezione essenzialmente negativa della libertà. È il liberalismo/liberismo che esprime questo modo di intendere l’agire umano: un agire che possiamo definire libero tanto più quanto meno esso è regolato, costretto dalla legge e dal controllo dello Stato. Inutile dire che anche questo tipo di libertà, ammesso e non concesso che possa significare qualcosa per gli animali (essendo legato strutturalmente al rapporto con regole universali e quindi all’ordine simbolico umano) non esaurisce certo le potenzialità del concetto di libertà.
Ma non va meglio con il concetto di “uguaglianza”. Anche in questo caso ci sono almeno due punti di vista che rendono problematica l’idea di un’uguaglianza naturale, già data. Da un lato, se la consideriamo ontologicamente, l’uguaglianza è un’idea sbagliata, dall’altro, è anacronistica. Non solo perché non si danno uguaglianze de facto ma, più radicalmente, perché esse sono o dovrebbero essere, di fatto, irrilevanti de iure.
La natura segue il principio degli indiscernibili leibniziano, non produce copie platoniche ma variazioni infinite in cui le stesse strutture che definiscono le specie sono in costante, per quanto lento e impercettibile, mutamento. Il mare della molteplicità in cui scorriamo come individui e come specie non lascia spazio ad essenze immutabili ma solo ad un costante gioco di differenze e singolarità che costantemente divengono altro-da-sé. L’antispecismo, da questa angolazione, diventa una sorta di eraclitismo, una messa in crisi dello stesso concetto essenzialistico di “specie” nel tentativo di cogliere la natura nel suo incessante mutamento.
Allo stesso tempo, seppure si volesse concedere l’esistenza relativa, cioè localizzata in un determinato contesto spazio-temporale, di identità diverse, la loro uguaglianza si sposterebbe sul piano morale: cioè sulla necessità di uguale considerazione (in effetti si può pretendere di considerare come uguale solo ciò che è diverso). Ma qui rimane il problema del senso e del fine che andrebbe dato a questa uguaglianza. È l’uguaglianza giuridica dell’imprenditore e del salariato? È l’uguaglianza dei diritti fondamentali dell’uomo e della donna? È insomma l’uguaglianza formale della società borghese o è l’uguaglianza materiale di cui parla la tradizione socialista?
Il punto è che bisognerebbe invece uscire da questo tipo di discorso. La natura non è mai la risposta e se lo è, è sbagliata. La natura è sempre una domanda. Occorre rovesciare completamente questo approccio e dichiarare senza vergogna che libertà e uguaglianza sono invenzioni, nel senso di costruzioni. Salvo poi aggiungere, però, che non sono soggettivi e arbitrari, non sono “idee”, ma, al contrario, oggettivi, esito di processi storico-sociali determinati, perfino materiali.
Pensiamo a come si sono evoluti i discorsi relativi ai “diritti” e a come siano irrimediabilmente entrati in crisi negli ultimi decenni. L’idea di “allargare” progressivamente la sfera della protezione giuridica ha avuto una sua plausibilità, sia per gli umani che per i non-umani. Si poteva certo immaginare che la legge e lo Stato avrebbero potuto garantire libertà formali in modo illimitato ma la realtà ha smentito questo ottimismo. D’altronde, l’idea di un expanding circle, come veniva teorizzato da Singer all’inizio degli anni ’80, lasciava problemi enormi che la riflessione ontologica sulla natura, che abbiamo citato prima, ha contribuito a far esplodere. Dove pongo infatti il confine quando inizio a destabilizzare il soggetto morale-giuridico? Fino a che punto quel concetto di “allargamento” mette davvero in crisi l’antropocentrismo e quanto, invece, contribuisce a riprodurlo? Se non si vuole cadere nell’indifferentismo mistico di una vita sacra, quali attribuiti devono essere considerati rilevanti se non quelli che lentamente ma inesorabilmente ci riconducono a noi stessi (l’essere senzienti, avere relazioni “significative” ecc.)?
Anche l’altro grande concetto che si lega alle prassi radicali di trasformazione dell’esistente, quello di liberazione, non sembra potersi sottrarre oggi ad un profondo rinnovamento critico. Già l’idea di liberazione umana si è annacquata fino a diventare la celebrazione di stili di vita “alternativi” e pratiche “locali” (peggio: “tradizionali”) che nel loro particolarismo finiscono per ricadere indietro rispetto alla modernità capitalistica, celebrando un irrazionalismo molto più opaco e ottuso della razionalità tecnologica cui ci si vorrebbero opporre. Conseguentemente, però, va anche peggio con la liberazione animale che, davvero, al di là delle pratiche di azione diretta, non si capisce cosa possa significare e, di nuovo, quale fine possa avere. Siamo noi che liberiamo loro? Altruisticamente, egoisticamente, surrettiziamente, surrogativamente? Costringiamo gli animali non umani ad adeguarsi al nostro concetto di liberazione? E cosa dovremmo fare una volta liberati gli animali (qualsiasi cosa ciò significhi? Ignorarli? Vivere come loro? Smettere di parlare, contare o costruire utensili secondo i deliri primitivisti?
Usciamo quindi da questa illusione naturalistica e riformuliamo tutta la questione da un punto di vista sociale e storico. La domanda che dobbiamo porci originariamente è quale tipo di società costituisce il fine della nostra teoria e della nostra prassi. Perché la domanda sul tipo di società precede e fonda quella sul tipo di libertà e uguaglianza di cui discorriamo. La libertà e l’uguaglianza vengono così riformulate nel senso delle possibilità di autodeterminazione, anzi assumono un senso specifico solo su questo sfondo teorico e pratico. La libertà diventa così la capacità di esprimere il proprio potenziale. E ciò significa che l’autodeterminazione muove dallo sfondo sociale al livello individuale: gli individui possono autodeterminarsi veramente solo in una società che a sua volta si autodetermina, che si è cioè sottratta agli influssi irrazionalistici della natura, della tradizione e del profitto.
Una società intesa in questo modo, una società che produce collettivamente e distribuisce in modo egualitario la ricchezza prodotta, una democrazia socialista del lavoro e della libertà, sarebbe allora una società che non avrebbe più un interesse oggettivo a sfruttare illimitatamente la natura, bensì a portarla ad espressione perché se ne riconoscerebbe dialetticamente parte. Essa avrebbe gli strumenti per affrontare questa antinomia che vuole l’umano contrapporsi al resto del vivente, si troverebbe non solo oltre l’antropocentrismo teorico spiritualista, ma anche oltre l’antropocentrismo pratico cui ci condanna il meccanicismo. Libertà e uguaglianze indicherebbero forme nuove di convivenza sul pianeta, tra umani e tra noi e le altre specie, forme di vita in cui la continuità naturale andrebbe di pari passo con un salto qualitativo nei rapporti interni alla natura stessa oltre questi rapporti, verso qualcosa che ancora non è stato, un progetto di emancipazione integrale dell’animalità che pone le basi per una convivenza fondata su principi di solidarietà universali. Questa universalità sarebbe il novum che l’umanità ha sempre preteso di incarnare e nei confronti della quale ha sempre fallito. Essa l’ha posta nei cieli dell’astrazione mentre rappresenta piuttosto un processo materiale di trasformazione della società a partire dalle sue basi, anzitutto economiche.
L’uguaglianza rappresenta così la massima forma possibile di autodeterminazione per tutti gli individui e tutte le specie. Qualcosa che, essendo costantemente in fieri, sfugge alle alternative secche e rigide della morale, diventa sfumata, contraddittoria, problematica e conflittuale: ma proprio per questo diventa un progetto pienamente politico. La libertà diventa la misura dell’uguaglianza realizzata. L’uguaglianza il fine verso cui tende essenzialmente la libertà. L’unico vincolo che la libertà può accettare è quello posto da sé. Ma all’altezza di questa idea di libertà può stare soltanto una radicale messa in questione di quel sé, un soggetto che trova sé stesso solo se è disposto a perdersi negli infiniti rivoli dell’esistenza collettiva: umana e non umana. Perché questa esistenza si dà prima che io possa anche solo interrogarmi su di me. Questo intendono Spinoza e Hegel quando sostengono che “la libertà è la coscienza della necessità”: se l’esistenza collettiva, con le sue forme, il suo senso, i suoi fini, non mi precedesse sempre, la mia libertà girerebbe a vuoto e la mia uguaglianza non avrebbe contenuto.