Pubblichiamo con piacere questo contributo di Dario Manni sul vergognoso attacco omo-transfobico subito dal Santuario Capra Libera Tutti e sulle conseguenti riflessioni che l’attuale realtà dei rifugi induce in vista della liberazione umana e animale
Il post con cui il rifugio per animali “Santuario Capra Libera Tutti” ha annunciato l’ospite di un suo evento – l’artista drag queen, performer, musicista e cantante impegnato su diritti animali, ambientalismo e femminismo queer “Soya the Cow” – è finito nella tempesta omofoba e transfobica degli animalisti e delle animaliste qualunquiste, di destra e anche di qualche “rossobruno”, che ne hanno riempito la sezione commenti con critiche e accuse rivoltanti. Fra di esse, quella di strumentalizzare la causa animale per diffondere l’ “ideologia gender” e indottrinare su questioni non attinenti i diritti e la liberazione animale. Un’accusa che ricorre ogni volta che l’antispecismo si apre a questioni altre – seppur non aliene – da esso e divisive, cercando di identificarne i temi impliciti e di svilupparne gli esiti logici. La stessa accusa, per esempio, è da sempre rivolta all’antispecismo politico, accusato di strumentalizzare la causa per perseguire interessi socialisti. Il rifugio ha giustamente – e coraggiosamente – preso le distanze dalle critiche ricevute, spedendole indietro con un lungo messaggio in cui ha rivendicato di agire non solo per la liberazione animale ma anche per quella umana, compresa quella dalle discriminazioni relative a sesso, genere, orientamento e identità sessuale. Come si legge nel testo del messaggio, il motivo di questo posizionamento non è soltanto l’adesione di chi gestisce il rifugio al trans-femminismo e al femminismo queer, ma la più profonda convinzione che
“Senza cambiare questa cultura oppressiva, i suoi linguaggi e le sue pratiche, non possiamo cambiare la realtà che ci circonda”
Nello stesso testo, il rifugio ha annunciato che sta preparando una programmazione di eventi nella quale continuerà a mescolare temi tradizionalmente animalisti e antispecisti con altri “importanti e d’attualità”. Il post ironico pubblicato in seguito da Capra Libera Tutti, un carosello di meme nel quale politici e politiche di destra commentano negativamente l’evento attaccato e raccomandano, per bocca dell’ex-senatore Simone Pillon, di non farvi partecipare i bambini, mette in ridicolo le critiche ricevute e pone la parola fine – almeno così pare mentre scriviamo queste righe – alla vicenda. E tuttavia, lungi dall’essere risolutivo, apre a problemi molto più grandi.
Il “riconoscimento del mandante” – parafrasando l’espressione della premier Giorgia Meloni, diventata anch’essa protagonista di molti meme – operato dal Santuario identifica la provenienza dell’ondata di indignazione ricevuta nella cultura e nella politica di destra. Non ci spenderemo qui in analisi circa l’esattezza di questa identificazione, ma ci sembra che, come minimo, il clima di intolleranza omofoba e transfobica sia da imputare oltre che alla destra – e in particolar modo alla destra sovranista – anche al succitato rossobrunismo. Dietro la gonna dell’anti-liberismo, per esempio, il cristianesimo sociale di Stefano Fassina batte da tempo sul chiodo della critica alla “mercificazione” dei corpi delle donne che intraprendono percorsi di maternità surrogata e sulla presunta necessità del recupero a sinistra dell’ideale e del valore della famiglia monogamica ed eterosessuale; nonché sulla condanna di un non meglio specificato “disconoscimento sessuale dell’umano” –che l’ex-deputato di Liberi e Uguali sembra imputare proprio al queer e al transfemminismo. Ci limitiamo invece a notare l’assenza, dal carosello del Santuario Capra Libera Tutti, di Vittorio Feltri, che della cultura di destra – anche in tema sessuale – è stato ed è un riferimento e, anche tramite i suoi media, un’importante cassa di risonanza. Eppure, un post che lo stesso Feltri pubblicò a supporto de “La Sfattoria degli Ultimi” nel periodo più emergenziale della crisi dovuta all’epidemia di peste suina africana che minacciava i suidi di quel rifugio, fu condiviso proprio dal gestore del Santuario Capra Libera Tutti, che dopo qualche giorno tornò indirettamente sull’argomento sostenendo candidamente che in quella situazione avrebbe accettato “anche l’aiuto del diavolo”. In un altro video, lo stesso gestore incoraggiava chiunque a raggiungere La Sfattoria per opporsi a forze dell’ordine e veterinari dell’ASL incaricati di uccidere i suidi, a prescindere da quanto si gradisse la compagnia di chi si trovava già sul posto. Nello stesso minestrone erano gettate le persone verso cui si provasse comune antipatia e le organizzazioni che promuovessero valori contrari rispetto ai propri. Quanto contrari potessero essere questi valori, cioè se esistesse un limite alla tolleranza nei confronti dei compagni di “piazza” oppure no, non era specificato né, forse, era abbastanza ragionata l’apertura indiscriminata in cambio di un aiuto estemporaneo. Ma il diavolo, si sa, per il suo aiuto presenta sempre il conto, in questo caso sotto forma dei commenti e delle critiche omofobe e transfobiche che il Santuario ha giustamente condannato – e della perdita di popolarità, del minor sostegno e delle minori donazioni che potrebbero colpirlo.
Il Santuario Capra Libera Tutti è una realtà fra le più politicizzate del mondo dei rifugi italiani. La animano persone consapevoli dell’insufficienza dell’approccio animalista classico, in qualche caso con simpatie nette per la cultura e la politica di sinistra. Una sinistra moderna e progressista. Il coraggio con cui il Santuario ha risposto alle critiche ricevute e l’intenzione dichiarata di continuare a diffondere principi e valori di rispetto, solidarietà, uguaglianza, libertà, emancipazione e compassione verso gli animali di ogni specie, umani compresi, sono ammirevoli; ma si scontrano con la realtà dei fatti. Gli animalisti di destra, i qualunquisti e i rossobruni hanno ragione a dire che agli animali non importa il colore politico di chi se ne occupa; se Feltri può aiutare a risolvere un’emergenza, il maiale e il cinghiale sotto minaccia di morte saranno salvi nonostante egli diffonda una cultura omofoba e transfobica. Quegli animalisti sbagliano, invece, se immaginano che una società organizzata attorno a un modo produttivo individualistico e proprietario, da cui derivano valori escludenti e che è legittimato da ogni forma di discriminazione – compresa quella omofoba e transfobica – sia terreno adatto per la liberazione animale. Se nel breve periodo tutto fa brodo, non altrettanto nel medio e nel lungo, dove si pagano le conseguenze di scelte comode ma sconsiderate; come essersi circondati, o non aver fatto abbastanza per liberarsene, di simpatizzanti e sostenitori omofobi, transfobici e di destra. L’attuale forma-rifugio – e veniamo al succo del discorso, al di là del caso particolare da cui abbiamo preso le mosse – è costitutivamente esposta alle intemperie come quella descritta all’inizio di questo testo. Perché essendo in condizioni precarie sia dal punto di vista economico che giuridico (manca un riconoscimento specifico, per la normativa vigente i rifugi sono allevamenti), per massimizzare le sue possibilità di sussistenza il rifugio deve rendersi pop, cioè creare consenso, fare tendenza e stimolare il “mercato” di riferimento. Ma rendendosi pop si de-individualizza, perde specificità, diviene trasversale. E ciò che è trasversale è, bene o male, sempre ciò che riproduce la società, non ciò che la riforma né, tantomeno, che la rivoluziona. Questo costituisce la specifica dialettica del rifugio antispecista. Non essendo funzionale al dominio borghese a meno di spoliticizzarsi, il rifugio non può contare su un pubblico davvero di massa e, dal punto di vista economico, più o meno dipende sempre dalle stesse donazioni e dagli stessi donatori; fra i quali i meno interessati a cambiare la società in senso solidaristico ed egalitario sono proprio quelli con maggiori capacità economiche. Al contrario, quando si politicizza e si radicalizza, il rifugio perde consenso, non fa più tendenza e non stimola il mercato delle donazioni (né attira donatori ricchi), che tende a scaricarlo alla ricerca di nuovi oggetti su cui investire il proprio desiderio – e spendere i propri soldi. Le conseguenze concrete di questo disinvestimento sono il maggior isolamento politico e le minori entrate economiche che mettono a rischio la sussistenza del rifugio e la vita degli animali ospitati; il che spinge il rifugio a riconsiderare il suo posizionamento. Così, da luogo simbolo della dis-economia (perché la maggior parte dei suoi abitanti non sono forza-lavoro e non producono nulla) esso torna fra le braccia del mercato. La volontà soggettiva di diffondere una cultura radicale (progressista o conservatrice che sia) si infrange contro la dimensione oggettiva degli interessi materiali dell’attuale forma-rifugio e, potremmo dire, contro la sua stessa ragion d’essere. Ciò non impedisce completamente l’espressione di forme di antagonismo allo stato di cose presente, ma le induce a parzializzarsi e, in ultima analisi, a disinnescare il loro portato esplosivo, rivoluzionario. Pose antagoniste e conflittuali sono certamente ancora possibili. Nella temperie culturale e politica del centro-sinistra liberale schiacciato sulla destra moderata, amico dei diritti civili e nemico di quelli sociali, sono perfino funzionali al sistema. Ma possono sopravvivere solo nella misura in cui si inseriscono. Il pop vuole disimpegno, non radicalità. Vuole imitazione e addomesticamento, è intrinsecamente tradizionalista. Se ben serviti consuma anche Bach, Platone, Hegel, Shelley, Baudelaire, Marx e Freud, ma solo come classici. Li priva cioè “della loro forza antagonistica, dell’estraniazione che era la dimensione stessa della loro verità” (Marcuse, 1999; 77). Così esso appiana le contraddizioni e uniforma lo status quo.
L’esistenza di alcune realtà minori, più politicizzate e radicalizzate, non deve pertanto illudere: la legge generale che regola l’esistenza dei rifugi nell’attuale modo di produzione ne suscita trasversalità e qualunquismo dalla forza dell’economia e dei bisogni materiali. Rifugi di piccole dimensioni, con pubblici di nicchia o ben targetizzati e raggiunti, possono ancora sperare di resistere. Ma la tendenza che spinge costantemente ad ampliare il proprio pubblico – ovvero il “mercato” di riferimento – è sempre operante. Non solo perché ci sono sempre animali da ospitare; ma soprattutto perché la possibilità di affrontare le emergenze e di avere flussi di cassa costanti dipende dalla propria rete di supporto, e tanto dalla qualità quanto dalla quantità della propria base di donatrici e donatori. Ovvero sia dalla loro disponibilità economica che dal loro numero. Non sono pochi i rifugi che, nel corso degli anni, hanno dovuto chiudere i battenti proprio come la maggior parte delle piccole imprese. Per resistere non bastano, infatti, capacità e determinazione: malgrado ciò che afferma il Santuario Capra Libera Tutti, la “realtà” non cambia tanto cambiandone la cultura, quanto i rapporti e le condizioni di produzione. Ma anche per diffondere il proprio messaggio oltre la “bolla” sociale di riferimento – e quindi, fra le altre cose, ottenere l’aiuto di numerosi donatori e donatrici – è necessario avere abbastanza controllo sui mezzi produttivi e distributivi. Senza tale controllo, la proliferazione dell’(in)cultura di destra è inarrestabile. I rigurgiti reazionari che attraversano la società alterano l’humus dal quale prendono nutrimento anche i rifugi. In questo contesto, neanche il riconoscimento giuridico della specificità dei rifugi antispecisti e un finanziamento statale fisso e dedicato sarebbero un passo verso un cambiamento sociale significativo; ma almeno tornerebbero utili alla loro stabilizzazione. I rischi sarebbero molti e grandi: normando e finanziando i rifugi, lo stesso Stato che comanda l’uccisione preventiva dei suidi de La Sfattoria potrebbe pretendere di avere voce in capitolo nella loro gestione. Nessuna soluzione, insomma, potrà davvero sostituire la necessità primaria di espandere il controllo popolare sull’apparato statale alla luce di principi solidaristici, egalitari e compassionevoli – e verso il superamento della forma-Stato. Un obiettivo che richiederebbe la “morte” dell’antispecismo come questione single-issue – quale è attualmente anche laddove si parla di intersezionalità delle lotte – e il suo impegno per la ricomposizione di un fronte unitario di vertenze. Il che sarebbe contrario agli interessi immediati di organizzazioni animaliste e antispeciste, rifugi compresi, che difatti su questo non fanno opera di sensibilizzazione.
Bibliografia
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Manni, D. (2022) Tempo di andar via. Perché l’antispecismo deve morire, Comune-info
Manni, D.,Maurizi, M. (2022) Politiche della relazione. La convergenza delle lotte oltre il
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Marcuse, H. (1999) L’uomo a una dimensione, Torino : Einaudi
Marx, K. (2018) Il capitale, Roma : Newton Compton
Marx, K. (2004) Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino : Einaudi
Marx, K., Engels, F. (2018) L’ideologia tedesca, Roma : Editori Riuniti
Maurizi, M. (2022) Antispecismo politico, Aprilia : Ortica Editrice
Maurizi, M. (2018) Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene,
Milano : Jaca Book
Nibert, D. (2002) Animal Rights/Human Rights. Entanglements of Oppression and
Liberation, Lanham and Oxford: Rowman & Littlefield
Non sono pienamente d’accordo…stiamo andando verso un brodo…noi umani facciamo sempre lo stesso sbaglio quello di credere di essere un Dio o tanti Dei…e di conseguenza facciamo continuamente leggi su tutto …il tutto ha già le sue leggi perché non le vediamo?
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