Intervista a cura di Hassan.K dal canale Telegram iraniano https://t.me/weanimals attivo nel campo dei diritti animali. Qui l’intervista in lingua originale
Possiamo dire che rispetto ad altri temi (razzismo, sessismo, abilismo ecc.) la sinistra ignori il tema della “questione animale”? Nota, cioè, una differenza tra come viene affrontato questo tema e quello delle altre oppressioni?
Innanzitutto, vorrei mettere in discussione il suo punto di partenza. Sia la “sinistra” che la “questione animale” sono concetti generici, quindi non mi è facile dire se e in che misura ci sia una “traccia” della questione animale nelle organizzazioni che possiamo definire, per vari motivi, “di sinistra”. In ogni caso, sia che si consideri l’opinione pubblica di sinistra, le grandi organizzazioni socialdemocratiche, i piccoli partiti marxisti, i gruppi di base, gli squat ecc. non direi che la questione animale sia totalmente ignorata. Chi, come me, è stato attivista a sinistra (e nei gruppi animalisti) dalla fine degli anni ’90 non può ignorare quanto, da un punto di vista teorico e pratico, le cose siano cambiate. Questioni che un tempo potevano essere derise ora hanno una dignità che non può più essere negata. Un’altra cosa, naturalmente, è quanto la sinistra intenda “fare sul serio” su questi temi e qui vengo alla sua domanda. Non credo che il modo in cui è impostato oggi il discorso sulle “forme di oppressione” sia corretto. Non credo che esista un modo unitario e coerente, da un punto di vista teorico, di mettere insieme sessismo, razzismo, abilismo, omotransfobia e specismo . Si tratta di questioni diverse, ognuna con la sua specificità e che a loro volta devono essere distinte dal problema della contraddizione capitale/lavoro (inoltre, anche rispetto a questa contraddizione ognuna di queste “questioni” gioca un ruolo diverso e specifico). Credo che lo specismo ci aiuti a comprendere questo fatto cruciale. Se consideriamo lo specismo come “una delle forme di oppressione” questa specificità viene annullata e tutto sembra ridursi a un problema di “discriminazione”. Ma gli animali non umani sono discriminati (se proprio vogliamo usare questo termine, che mi sembra inappropriato in questo caso) perché sono sfruttati dalla società umana, in quanto costituiscono il retroterra materiale di cui le classi dominanti hanno bisogno per produrre la loro ricchezza. Naturalmente, il distacco dell’umanità dalla propria autopercezione come parte della natura, l’alienazione dell’uomo dall’animale (che rappresenta ancora un elemento progressivo nella storia della civiltà) si incarna nella cultura antropocentrica, sia nella sua componente spiritualista che in quella meccanicista. In una parola, tutto ciò che siamo come “umani” si basa sull’esclusione dell’animale e dell’animalità, cosicché non è affatto facile pensare di porre fine alla distruzione della natura non umana senza mettere a repentaglio l’intera struttura della civiltà.
Alcuni marxisti hanno sollevato un dibattito teorico sul fatto che i concetti di lavoro, sfruttamento e plusvalore sono questioni che riguardano specificamente la posizione dei lavoratori umani e il loro rapporto con il capitale. Tali concetti non sarebbero adatti a descrivere gli animali e il loro ruolo nella produzione. D’altra parte, il dominio dell’uomo sulla vita degli animali e il loro coinvolgimento nella produzione sociale è una questione oggettiva ed evidente. Una situazione di totale dominazione e oppressione. La domanda è: la mancanza di una presa di posizione della sinistra nei confronti della sofferenza degli animali può essere collegata all’analisi teorica che considera concetti come “oppressione” e “sfruttamento” inadatti a descrivere il ruolo degli animali nel capitalismo? È giustificato rimandare una presa di posizione su questi temi al raggiungimento di risultati nell’analisi teorica?
Queste due domande sono corrette, ma devono essere separate. Da un lato, è vero che se utilizziamo un concetto troppo ampio di “sfruttamento”, esso perde rigore e specificità. Di conseguenza, l’analisi delle relazioni di classe diventa confusa e impossibile. Come ho detto prima, dobbiamo essere più specifici, non meno. Se non vogliamo che il concetto di “produzione” diventi solo metaforico (come quando parliamo di “produzione di soggettività” o di “lavoro produttivo” in senso sessuale), dobbiamo fare delle distinzioni. Solo dopo aver distinto queste relazioni, possiamo cercare di fare una sintesi. Per questo dobbiamo fare un lavoro teorico di cui abbiamo appena iniziato a intravedere le basi! È come quando si paragonano i mattatoi ad Auschwitz: il confronto colpisce ma anche stordisce. Gli animali non vengono “sterminati” come una razza inferiore, ma nascono appositamente per essere sfruttati e uccisi: il che, se vogliamo, è ancora peggio perché è un processo senza fine. Gli animali non vengono “sfruttati” per estrarre plusvalore (questo non accadeva nemmeno quando venivano usati come forza-lavoro), ma come materia che entra nel processo di valorizzazione. Il loro “sfruttamento” è cambiato radicalmente dall’era premoderna a quella capitalista, così come lo sfruttamento del lavoro umano è cambiato nella sua essenza perché è cambiato il suo scopo sociale complessivo. Tuttavia, questo è il punto, come si parla di società di classe – società in cui la ricchezza e l’onere del lavoro materiale sono distribuiti in modo ineguale – così si può parlare di società antropocentriche o speciste, in cui la natura non umana è intesa come mezzo per un fine: cioè la riproduzione della stessa società di classe.
Venendo alla seconda domanda: ovviamente non c’è bisogno di “rimandare” la denuncia del dominio sugli animali e la lotta contro di esso. Come gli antirazzisti e gli antisessisti stanno lottando in questo momento per un mondo senza razzismo e senza sessismo, così gli antispecisti stanno lottando in questo momento per un mondo senza specismo. È semplicemente giusto che la sinistra porti avanti queste battaglie adesso. Ma abbiamo due problemi. In primo luogo, la lotta contro il razzismo, il sessismo e lo specismo non sono battaglie “di sinistra” di per sé. La destra liberale ha il suo modo di accogliere quelle istanze che non coincidono con le nostre. Quindi la questione è come si combattono da sinistra queste battaglie? Come si presenta un mondo socialista senza razzismo, sessismo e specismo? Come ci battiamo per questo? Da questo punto di vista, non sono sicuro che questo tipo di lotta “umanista” abbia già le idee chiare. Anche se fanno parte del DNA della sinistra da decenni, la crisi radicale che la sinistra mondiale sta attraversando dagli anni ’80 rende spesso un liberale antirazzista indistinguibile da un socialista. Gli attivisti per i diritti degli animali hanno spesso cercato di “imitare” i movimenti di liberazione umana, ma va ricordato che l’emergere del movimento di liberazione animale ha coinciso con il progressivo declino della sinistra di classe e con l’egemonia liberale sui diritti civili degli anni Ottanta. Questo rende molto difficile la “sintesi” di cui parlavo, perché si tratta di recuperare nella teoria e nella pratica il senso di un conflitto generale con il modo di produzione capitalistico. Quasi tutti i concetti con cui la liberazione animale si presenta oggi alla sinistra sono afflitti da questa eredità liberale. Non ho dubbi che l’antropocentrismo e lo specismo siano problemi strutturali della sinistra: ma questo è solo metà del problema. L’altra metà, quella su cui dobbiamo lavorare, è quella di tradurre la lotta contro lo specismo in concetti che possano essere utilizzati oggi nell’orizzonte della lotta contro il capitale. Senza questa elaborazione teorica, potremmo certamente aspettarci che singoli attivisti di sinistra si “convertano” di buon cuore alla lotta contro l’oppressione animale. Ma non avremo il diritto di pretenderlo per “coerenza” con la loro lotta contro il capitale.
Lei dice che la lotta contro lo specismo non è di per sé una lotta “di sinistra”. Nel “Che fare?”, però, Lenin esige che su ogni questione “liberale” ci sia una corrispettiva posizione socialdemocratica. Dice che dobbiamo reagire a tutti i fenomeni di arbitrio e di oppressione, ovunque si verifichino nei confronti di qualsiasi gruppo o classe, per mostrare come tutti questi fenomeni si inseriscano nel quadro generale dello sfruttamento capitalistico. Questo intervento attivo non è forse una necessità di lotta per i socialisti oggi?
Certo. Ma non è un caso che Lenin si riferisca a forme “umane” di oppressione. Perché la socialdemocrazia deve dimostrare che il suo progetto democratico è il vero erede dell’Illuminismo e l’unico in grado di realizzare coerentemente gli ideali di uguaglianza e libertà della società borghese. Lo stesso soggetto proletario può costituirsi solo all’interno del processo di universalizzazione reale prodotto dalla società capitalista, comprese le sue istituzioni liberali che i comunisti avevano il dovere di utilizzare per “rompere” la gabbia d’acciaio del sistema capitalista. Questo è teoricamente vero anche per quanto riguarda la soggettività animale, ma non è possibile una trasposizione immediata della questione dei “diritti” – così come dello sfruttamento “capitalistico” – dall’uomo all’animale: questo è chiaro nel caso del pluslavoro, ma sembra meno chiaro per quanto riguarda il problema dei diritti. Il punto è che l’animale non umano può partecipare a una concezione allargata della democrazia solo dopo che la democrazia è stata stabilita su una base materiale adeguata. Questo non significa che la sinistra possa semplicemente ignorare la soggettività animale: tuttavia, che l’umanità si costituisca come soggetto autonomo e autodeterminato è una priorità del socialismo. Solo se gli esseri umani sono in grado di emanciparsi, gli animali possono essere inclusi nel nostro progetto emancipatorio. Ciò implica che la base materiale della democrazia sia già stata raggiunta attraverso il controllo della produzione. Se ciò non avviene, non è possibile estendere il campo della democrazia ad altre specie: perché non c’è una vera democrazia da condividere.
Non escludo che le due cose possano essere portate avanti in parallelo, ma questa possibilità teorica è astratta e va dimostrata nella pratica: cosa non facile, anzi. Perché in politica si tratta sempre di fare delle scelte e le scelte orientano il processo di autodeterminazione delle classi subalterne. A me sembra più importante spingere il veganismo a prendere coscienza dei problemi essenziali che si pongono a livello di produzione (e trattare come secondari quelli relativi alla sfera del consumo), piuttosto che spingere i socialisti a modificare i loro consumi individuali. Direi che su questa questione dobbiamo essere rigorosi per non rovinare il nostro istinto politico (come scrive Marcuse) e finire nel misticismo. La realtà cambia toccando le strutture fondamentali che la organizzano e la riproducono. La questione della democrazia si decide soprattutto a questo livello. Infatti, se questo obiettivo non diventa prioritario, se la politica si confonde e la realizzazione dei diritti borghesi viene perseguita come fine a sé stessa, è facile che si creino attriti e conflitti nel campo socialista che impediscono la piena realizzazione della democrazia sostanziale.
Will Kymlicka, nell’esaminare la posizione della sinistra sulla questione degli animali, sottolinea come, a differenza di altre questioni sociali, prendere posizione sul ruolo degli animali nel sistema capitalistico e accettare la necessità della sua trasformazione spinga di solito a un cambiamento nello stile di vita dell’individuo: una conseguenza che non tutti sono però disposti ad accettare. Pertanto, egli ritiene che questa resistenza al cambiamento di stile di vita sia uno dei fattori che spiega la mancanza di presa di posizione a sinistra nei confronti dello sfruttamento animale. Qual è la sua idea al riguardo? Possiamo concludere che il fatto di non vedere lo status degli animali nel sistema capitalista è dovuto allo specismo che domina il sistema teorico e intellettuale della sinistra?
Sicuramente il problema per cui molti socialisti o lavoratori non accettano l’antispecismo è che viene presentato loro sotto forma di “veganismo”, cioè di stile di vita individuale. Ora, su questo possiamo dire due cose: da un lato, credo che francamente facciano bene a rifiutarlo perché molti di loro sono oggettivamente in una posizione politica più avanzata, guardando ai problemi dal punto di vista della “struttura” (cioè della produzione) e non della “sovrastruttura” (cioè del consumo); dall’altro, è invece vero che molti socialisti e operai, per non parlare degli anarchici, la pensano esattamente come i vegani e pensano che il mondo cambi perché noi decidiamo individualmente di cambiare il nostro stile di vita. Quindi, in questo caso non hanno argomenti per non abbracciare il veganismo, anzi, dovrebbero farlo: almeno sarebbero coerenti nel loro errore. Quindi, direi che sì, una volta fatta questa distinzione e chiarito dove sta il vero problema, la resistenza della sinistra all’antispecismo dipende dal fatto che molti non accettano di cambiare stile di vita.
Per questo motivo, però, non credo che quanto lei afferma nell’ultima parte della domanda sia corretto. Credo che chi ha una coscienza autenticamente socialista veda chiaramente, almeno nell’essenziale, il ruolo degli animali nel processo di autovalorizzazione capitalistica e ne comprenda la fondamentale estraneità, l’impossibilità di identificare la condizione dei lavoratori e quella degli animali oppressi. La complessa relazione tra l’animale non umano e il capitale riguarda la genesi del capitalismo (la preistoria delle relazioni capitalistiche) e, soprattutto, il possibile esito di una vittoria del socialismo, quindi la piena realizzazione dell’umanità come soggetto autodeterminantesi. Sono questi due gli aspetti più oscuri e intricati, quelli in cui emerge la relazione profonda che lega l’essere umano e l’animale non umano, che ci aiuta a pensare il soggetto umano in una forma diversa, dialettica, aperta al suo Altro. Solo ripensando la preistoria del soggetto possiamo ridefinire il materialismo storico e dargli una nuova impronta, tradurlo nella consapevolezza della fratellanza che lega le specie in una condizione universale di sofferenza. A partire da qui, con l’aiuto della scienza e della tecnologia, l’intero problema dell’animalità si traduce in un nuovo modo di stabilire relazioni tra la specie umana e le altre specie, o tra la società umana e le altre società con cui condividiamo la biosfera. È solo a questo livello che si possono porre e risolvere razionalmente i problemi e le sfide più radicali dell’antispecismo.
Forse occorre affrontare anche il caso di Marx e della sua analisi della distinzione uomo/animale. Sebbene tale distinzione svolga un ruolo centrale nella sua analisi dell’evoluzione sociale umana, secondo alcuni, in particolare l’animalista marxista Ted Benton, il pensiero di Marx sarebbe caratterizzato dal “narcisismo di specie”. In base a questa critica, la distinzione marxiana tra uomo e animale lo porta a considerare “degradata” la vita degli animali, mentre l’attenzione speciale rivolta alla “specie umana” lo spinge ad ignorare la loro sofferenza e i loro interessi. Il punto di vista di Benton è stato in seguito accettato come un’ipotesi fondata da molti teorici degli animali e viene spesso citata.
Lawrence Wilde (2015) ha risposto a questa critica in “Anche le creature devono essere libere: Marx e la distinzione animale/umano” (2015). In seguito, John Bellamy Foster e Brett Clark in “Marx and Alienated Speciesism” (2018) e Christian Stache in “On the Origins of Animalist Marxism” (2018) hanno criticato aspramente Benton, accusandolo di non aver compreso correttamente gli scritti di Marx. Essi ritengono che gli animali non fossero l’obiettivo principale del lavoro di Marx e che egli non avesse intenzione di scrivere un trattato sugli animali, ma che la critica del modo di produzione capitalistico richiedesse di affrontare le condizioni storico-materiali dello sviluppo sociale umano. Foster, Clark e Stache ritengono che la nozione di “essere specifico” (Gattungswesen) di Marx descriva le pulsioni e le capacità distintive dell’uomo che lo portano a un livello superiore di consapevolezza e autocoscienza, e che ciò non abbia nulla a che fare con il degrado degli animali e l’indifferenza nei loro confronti.
D’altra parte, recentemente Kohei Saito nel suo scritto “Marx’s Ecological Notebooks” sostiene che negli ultimi anni Marx si è concentrato molto sulla questione della natura e sul ruolo distruttivo del capitalismo, in modo tale da sostenere che Marx, prendendo le distanze dalle sue opinioni iniziali, ha raggiunto una posizione ecologica valida e strutturata. Ma è chiaro che, anche ammettendo la correttezza della sua particolare attenzione alla natura negli ultimi anni, Marx non ha mai affrontato la questione specifica dello sfruttamento degli animali nel sistema capitalistico.
In base a quanto detto sopra, fino a che punto pensa che gli argomenti sollevati contro la critica di Benton possano essere una reale spiegazione del pensiero di Marx e perché, nonostante ciò, tali “accuse” contro Marx vengono ancora sollevate?
La ricostruzione di Benton è completamente sbagliata. Si basa: 1) su un presupposto ontologico (la superiorità dell’uomo sull’animale) che è molto problematico e non è mai formulato nel modo in cui Benton e gli altri critici di Marx lo discutono; 2) su un presupposto etico che non esiste da nessuna parte nel testo di Marx (l’umanesimo come valore assoluto), e 3) sul concetto di “prometeismo” come suo inevitabile correlato (la degradazione della natura a puro strumento dell’uomo) che anche qui viene frainteso o interpretato unilateralmente. Ma non è solo sulla natura che il discorso di Benton mi sembra errato e non rappresenta un “passo avanti” rispetto a Marx: tutto il suo discorso sui diritti rappresenta una clamorosa negazione della critica marxiana proposta nella Judenfrage, tutta la teoria dello Stato presentata da Benton in Natural Relations è riformista e liberale. Non voglio negare i problemi che il marxismo ha rispetto alla teoria dello Stato e come questi siano diventati drammatici al tempo della Seconda Internazionale, del bolscevismo e dello stalinismo, ma – come spesso accade ai marxisti della generazione di Benton – la loro “soluzione” a questi problemi rappresenta semplicemente un arretramento verso posizioni borghesi. Per i ricercatori e gli attivisti come me, cresciuti dopo la storica sconfitta della sinistra negli anni Ottanta, questo tipo di discorso diventa teoricamente inaccettabile per le disastrose conseguenze politiche che ha avuto. Questo è il motivo per cui io e Stache “torniamo” al testo di Marx e siamo così scettici nei confronti di questo tipo di lettura che inevitabilmente distorce il pensiero di Marx perché lo legge a partire da esigenze teoriche e pratiche che non sono più le nostre.
Spesso mi accorgo che, in generale, chi non capisce bene Marx non capisce nulla di Hegel. Questo è per me l’enorme problema della lettura di Benton e dei critici dello “specismo ” di Marx: applicano il loro concetto statico e astratto di “antropocentrismo” a un pensiero dinamico e dialettico, che è molto più ricco e sfaccettato del loro. Su questo sono pienamente d’accordo con Bellamy Foster e Stache. Prendiamo, ad esempio, l’idea della “superiorità” dell’uomo sull’animale: non esiste in Marx (o in Hegel) perché non esiste un’ontologia nel senso tradizionale del termine. L’essere umano è un “divenire” umano e tutto il discorso sul fatto che l’uomo (in Marx come in Hegel) sia superiore all’animale perché può produrre “universalmente” non indica una facoltà della mente o un qualche modello biologico della specie, ma piuttosto un processo storico-materiale aperto e in evoluzione. È questo processo che racchiude la possibilità reale di un’effettiva capacità di autodeterminazione umana in senso universale. L’idea dell’uomo come “essere-specie” (Gattungswesen) è ancora posta in modo astratto nei Manoscritti economico-filosofici, ma poi viene sviluppata in modo molto più concreto nei Grundrisse. Se si legge Marx solo sulla base di un testo del 1844 e si ignora completamente il lavoro sull’economia politica svolto nei venti anni successivi, è inevitabile che la visione sia parziale. Bellamy Foster e Stache hanno ragione: l’obiettivo di Marx è l’analisi del capitalismo, una visione spassionata e oggettiva delle sue tendenze e contraddizioni immanenti, gli animali sono “fuori gioco”, per così dire, perché questo mondo immaginario e terribilmente reale che è il modo di produzione capitalista funziona solo sulla base di presupposti riguardanti l’interazione sociale umana. Il feticismo della merce, il lavoro astratto, il plusvalore, sono fenomeni resi possibili solo da una specifica struttura sociale e non da altre. Come scrive bene Lenin in “Chi sono gli amici del popolo“, Marx parla solo delle leggi del capitalismo, non parla delle leggi della storia o di altri falsi concetti generali sulla società.
Questo vale anche per l’etica e per il problema del prometeismo. Se la realtà umana è intesa come divenire, non esistono valori assoluti, né è possibile considerare in modo statico il rapporto tra uomo e natura, come scrive esplicitamente Engels nella “Dialettica della natura“, dove l’umanesimo deve riconciliarsi con la natura, per superare la sua alienazione spiritualistica dalla natura.
È certamente possibile che Marx sia arrivato a considerare la violenza del capitalismo nei confronti della natura nei suoi scritti successivi, ma vorrei aggiungere che: 1) questo non riguarda affatto gli animali come soggetti individuali di diritti, ma la natura nel suo complesso (le due cose non sono necessariamente collegate, c’è una lunga storia di ambientalismo che è sordo e cieco alla sorte dei singoli animali); 2) sicuramente il “rispetto” per la natura non potrà mai regredire in Marx a una concezione idilliaca dell’armonia della natura, ma sarà sempre nella direzione di una fusione tra industria e natura, in un superamento dell’immediatezza arazionale della natura. C’è una linea di demarcazione netta tra il marxismo, l’ecologismo e l’antispecismo e sta nel fatto che il primo parte da un’analisi dell’essere storico-politico per far emergere l’uguaglianza e la libertà (intese non come “valori” ma come strutture sociali, forme oggettive della ragione alla Hegel), mentre i secondi, almeno finora, hanno sempre cercato “nella” natura tale ordine oggettivo e i relativi valori, cercando di applicarli dall’esterno alla società umana.
Nella risposta alla terza domanda, lei fa riferimento alle condizioni per la realizzazione della liberazione degli animali dopo la realizzazione della vera democrazia per gli uomini. Ma noi ci riferiamo soprattutto al periodo di lotta che precede la realizzazione di questo obiettivo. Ovvero, la necessità di includere l’obiettivo della liberazione degli animali in un programma di liberazione socialista e di separarlo dalla lotta liberale. Significa dimostrare agli animalisti che la liberazione degli animali è possibile solo in una società libera dallo sfruttamento e dallo specismo. Ovvero, il dovere dei socialisti di accettare questo tema come parte dell’ideale socialista che dovrebbe essere realizzato in una società futura.
Secondo lei, non è la stessa questione dell’intervento attivo di cui parlava Lenin?
Credo che ci sia un malinteso di fondo. Innanzitutto, non capisco cosa intenda per “questione”. In che senso intende la questione animale come una “questione”? Perché, a differenza di quanto accade nelle questioni di diritti “umani”, non c’è coerenza nel modo in cui gli uomini rappresentano questa istanza. Non sono gli animali a rappresentare sé stessi, siamo noi a rappresentare i loro “interessi”. L’unico modo per dare coerenza a questa lotta politica è interpretarla nel senso della lotta dell’animalità (compresa quella umana) per uscire dalla logica del dominio. Ciò riguarda una visione complessiva che è certamente più ampia del socialismo, ma che lo presuppone e che, anzi, può essere adeguatamente compresa e realizzata solo sullo sfondo del socialismo realizzato. Tutto ciò che viene fatto prima di stabilire la condizione necessaria per l’uguaglianza è di per sé solo confuso e discutibile. Come sa, io distinguo l’antispecismo (che è, o almeno può essere, una filosofia sociale) dal veganismo, che è il tentativo pratico di raggiungere una qualche forma di “coerenza” a livello individuale con le proprie idee di giustizia e solidarietà. Anche supponendo di accettare il giudizio di Lenin (e, come dirò tra poco, credo che vada comunque problematizzato e storicizzato), non è chiaro cosa debba significare per i socialisti “fare spazio” a questa “questione”. Quale questione? Quella vegana legata alla sfera del consumo? Quella borghese legata ai diritti liberali? Quella anarchica legata al primitivismo e alla negazione del ruolo dello Stato e delle forme oggettive di razionalità sociale?
Alla domanda “cosa devono fare i socialisti”, posso rispondere in modo certo solo dal punto di vista della necessità teorica. Se mi chiedete cosa dovrebbero fare da un punto di vista pratico, potrei dare solo un’opinione valida come tante altre diverse. Sicuramente, “sarei felice” anch’io se iniziassimo a organizzare banchetti vegani durante gli scioperi. Ma non c’è una necessità oggettiva in questo senso, mentirei se vi dicessi che è “necessario” farlo. Mentre posso assicurarle e, credo, dimostrarle, che è casomai vero il contrario: che non ci deve essere una cena vegana senza propaganda socialista. Il socialismo senza veganismo ha un obiettivo socio-economico chiaro, definito e oggettivo. Il veganismo senza socialismo non ce l’ha, è solo un’idea confusa, incoerente e senza un vero scopo pratico.
Lei parla di inserire l’agenda animale nell’agenda socialista. Penso che l’antispecismo e il socialismo debbano andare avanti indipendentemente e che l’uno debba scoprire la necessità dell’altro dall’interno. Il compito teorico di noi marxisti antispecisti è proprio questo: mostrare dall’interno delle due teorie la necessità di un completamento dell’altra. Ma non nel senso che si tratta della stessa esigenza, non c’è specularità! Non c’è nemmeno una “teoria unitaria” da difendere o diffondere: la lotta di classe e la lotta contro l’antropocentrismo sono due lotte diverse, non sono la stessa cosa. L’unione si produce attraverso il conflitto e la contraddizione, non cancellandoli arbitrariamente. È assolutamente necessario che coloro che lottano per la libertà degli animali continuino a protestare e a chiedere giustizia, che le cose “potrebbero” essere fatte in modo diverso, eccetera: l’importante è che riconoscano che questa possibilità e questa giustizia diventano reali solo all’interno della lotta socialista. D’altra parte, man mano che le possibilità del socialismo diventano reali, anche i suoi obiettivi diventano più ampi e si può pensare e chiedere un’estensione della sua sfera d’azione dall’interno della sua prospettiva, l’estensione della soggettività oltre i confini della specie, ecc.
Non si tratta di cose che devono essere “rimandate” alla realizzazione del socialismo, si badi bene, sto dicendo che questi obiettivi diventano gradualmente più chiari e definiti, tanto più quanto la possibilità stessa del socialismo diventa una forza attiva nella realtà. Pensare di avere una teoria coerente in testa e calarla dall’alto sulle cose è idealismo e moralismo.
In secondo luogo, parliamo della questione dei “diritti”. Anche qui c’è un equivoco. Si tratta di un aspetto teorico e di un giudizio storico-epocale, per così dire, anche se i due aspetti sono collegati tra loro. L’idea che il socialismo debba “anche” lottare per i diritti liberali – altrimenti finisce nel totalitarismo – non è sufficientemente elaborata. Si confonde una questione tecnico-giuridica con una questione teorica (questo è, tra l’altro, il punto di vista di Benton & co). La teoria mostra il problema attraverso un’analisi delle condizioni di possibilità di un cambiamento di sistema e da questa analisi deriva il giudizio storico-pratico su come affrontare le contraddizioni politiche che quel cambiamento di sistema comporta. La teoria mostra le contraddizioni odierne tra l’aspetto formale e quello materiale della democrazia e indica la strada per il loro potenziale superamento: ma questo non significa che si possa fare a meno delle contraddizioni, sarà sempre possibile giudicare “inadeguato” il livello di democrazia di una società socialista. Ma ciò che cambia è il metro di giudizio, perché nel socialismo il rapporto tra formale e sostanziale sarà rovesciato: il livello di superamento della democrazia formale (e quindi dello Stato) dovrà essere giudicato a partire dall’instaurazione della democrazia materiale.
Anche in questo caso si potrebbe essere tentati di dire che i diritti liberali “devono” essere accettati nell’agenda di oggi come parte della lotta socialista. Ma questa conclusione parte dal presupposto che la democrazia liberale esista al di fuori della storia. Gli obiettivi della borghesia “progressista” di cui parlava Lenin nel secolo scorso non sono più quelli di oggi. Qui dobbiamo affrontare un giudizio storico-epocale sul quale possiamo non essere d’accordo, ma che non può essere ignorato: stiamo vivendo la transizione da un’epoca liberale classica a una chiaramente post-democratica. Gli sviluppi della democrazia in Europa e negli Stati Uniti (la “culla” dei diritti liberali) stanno segnando in modo chiaro e definitivo il passaggio a un’epoca in cui la democrazia formale è messa in discussione anche dalle élite politiche e culturali. Quando Singer e Regan scrissero i loro testi fondativi, il mondo stava vivendo un periodo di espansione della sfera dei diritti, anche se la prospettiva socialista era in declino. Oggi quella dinamica è impazzita, viviamo in un mondo che vira pericolosamente a destra, verso il fascismo e la guerra. In questo contesto, ha ancora senso parlare di diritti liberali come priorità della lotta politica? In realtà sì, perché sappiamo che la critica ai “diritti civili” è diventata il grimaldello con cui la nuova destra ha eroso il consenso della sinistra e guadagnato spazio tra la classe operaia. Non possiamo cedere al discorso contro il “politicamente corretto” e ad altri discorsi generici dell’Alt-Right che mettono in secondo piano i diritti delle minoranze. Ma proprio per questo è assolutamente necessario essere chiari sul fatto che lo scopo essenziale della lotta deve essere la piena realizzazione di una democrazia materiale e non formale. Se non discutiamo di questo, siamo fuori dalla realtà, ci uniamo alla sinistra liberale che ha prodotto questo sfacelo. Quindi, quello che ho detto prima sui “diritti degli animali” vale anche per i “diritti civili” dell’uomo. È chiaro che il fronte socialista non ha, al momento, altri strumenti per realizzare la democrazia interna se non il ricorso all’ideologia liberale – quindi alla lotta contro le discriminazioni di ogni tipo – ma questi sono strumenti che segnano la sua debolezza, la sua incapacità di articolare le questioni dal proprio punto di vista, che è il punto di vista della democrazia materiale. È assolutamente necessario che il socialismo prenda una posizione chiara anche su questo e definisca come prioritaria la realizzazione delle condizioni materiali per la possibilità della democrazia. Se cede su questo punto, diventa indistinguibile dalla sinistra borghese. D’altra parte, se cede sulla questione dei “diritti civili”, la sua voce è indistinguibile da quella dell’Alt-Right. Non è una situazione facile, e non credo di avere una soluzione concreta su “come” risolverla, ma il problema teorico c’è ed è chiaramente definito nei suoi termini essenziali.
Lei pone chiaramente l’accento sulla separazione tra lotta di classe e antispecismo. È possibile separare l’antisessismo, l’antirazzismo, la lotta al patriarcato, al lavoro minorile, ecc. dalla lotta di classe, dalle altre lotte dei socialisti? È ragionevole immaginare un’organizzazione militante di sinistra che non sia attivamente impegnata in questi campi? E, in caso contrario, che cosa separa questi casi dalla lotta per la liberazione degli animali?
Capisco perfettamente la sua preoccupazione, ma mi sembra che stiamo girando in tondo. Inoltre, porre la questione in termini così generali e astratti mi sembra sbagliato: ciò che un militante socialista dovrebbe fare domani mattina, a quale manifestazione dovrebbe andare, quale “questione” è importante sottolineare rispetto a un’altra, dipende dal contesto specifico in cui agisce. Ci sono Paesi che non hanno ancora raggiunto un livello sufficiente di liberal-democrazia e paesi, come il nostro, in cui la liberal-democrazia si sta ormai sgretolando (la post-democrazia di cui parlavo sopra), in cui queste questioni si sviluppano in modo totalmente diverso. Ma questo tipo di genericità necessita del tipo di astrazione, cioè di generalità teorica, di cui parlo. Io cerco di fare delle distinzioni per chiarire concettualmente alcuni termini (cosa essenziale per capire la realtà e agire per cambiarla senza confusione) mentre lei mi parla di questioni pratiche e organizzative che a mio avviso sono secondarie, derivate e, soprattutto, non possono essere affrontate in modo universale (e la teoria deve essere universale, altrimenti non è teoria). Lei mi parla di “separazione”, di “essere in relazione con”, di “essere attivamente coinvolti” che mi sembrano concetti vaghi. Ovviamente capisco cosa intende, ma non ha nulla a che fare con il mio punto di vista. Non ho detto che questi movimenti devono essere “separati”: ho detto che devono essere autonomi e non è affatto la stessa cosa. Inoltre, ho detto esplicitamente che il socialismo deve scoprire da sé la necessità di una rivalutazione dell’animalità, mentre l’antispecismo deve scoprire da sé la necessità del modo di produzione socialista. Tuttavia, ho anche chiarito che si tratta di due “necessità” diverse, non c’è simmetria. Credo che questo sia corretto da un punto di vista teorico ed è l’unica cosa che si può ragionevolmente dire, non si può andare oltre: poi sta a voi applicare questi concetti al vostro contesto politico e sociale. Credo sia fondamentale distinguere il livello teorico da quello organizzativo. Ma, anche se accetto, in linea puramente teorica, di discutere le questioni organizzative, non ho mai detto che i socialisti devono ignorare completamente queste lotte, nemmeno quella animale, ho detto che non c’è alcuna necessità teorica che il socialismo si basi su concetti che derivano dal liberalismo e che possono contraddire il socialismo se non vengono “rifondati” a partire dal concetto di democrazia materiale, di organizzazione della produzione, ecc.
Ho anche chiarito che il movimento socialista deve accogliere al suo interno le istanze dei movimenti per i diritti civili, poiché la classe operaia deve necessariamente organizzarsi in forma democratica e quindi senza discriminazioni di alcun tipo. Ma ho anche aggiunto che questo dimostra la debolezza del socialismo perché, essendo ancora limitato nei suoi effetti sulla realtà, il socialismo non può porre tali questioni sul proprio terreno ed è costretto a ricorrere all’ideologia liberale.
Porre le questioni “sul proprio terreno”, tuttavia, non significa che esista una teoria unitaria di tutte le forme di oppressione. Una cosa del genere non esiste e non può esistere: innanzitutto perché le forme di oppressione hanno origini, cause e funzioni diverse e non possono essere omogeneizzate in un’unica visione; in secondo luogo perché, anche ammettendo che si possa trovare una visione unitaria di tutte le oppressioni, il socialismo non può per definizione accettare che il concetto di “privilegio” diventi interclassista e, allo stesso modo, non appena si rompe il concetto di “privilegio” introducendo la linea di classe, l’ideologia liberale esplode o produce aporie e contraddizioni nella prassi politica. La differenza tra questi movimenti umanisti e quello antispecista è che la volontà degli animali non può entrare immediatamente a far parte del movimento dei lavoratori, quindi è inevitabile che la questione animale trovi difficoltà a trovare spazio in un progetto di trasformazione sociale. Ho detto: “immediatamente” e “difficile”, non che sia impossibile.
In sintesi, mi sembra che lei ponga un’alternativa rigida (sì/no, dentro/fuori) laddove io vedo un processo continuo e contraddittorio: per me, porre tali alternative è un residuo del ragionamento morale e del pensiero identitario, mentre pensare in termini di processo è il compito necessario di un approccio autenticamente politico e dialettico. Penso che la chiarezza teorica serva a guidare la pratica ma non possa determinarla direttamente, anche qui c’è un salto. La “chiarezza” che deriva dal ragionamento morale è invece confusa, mescola istanze che derivano da ambiti diversi (la sfera del consumo, il piano organizzativo, la necessità della testimonianza individuale, ecc.) Penso che si debbano affrontare e articolare le necessarie contraddizioni della realtà, non cercare di risolverle a priori inserendole in uno schema.
Da un lato, lei ritiene che la questione animale possa essere spiegata solo a partire da una corretta comprensione dell’organizzazione sociale della produzione (quindi dovrebbe essere considerata al di fuori dell’ambito dei movimenti liberali), dall’altro, lei critica il modo in cui la questione animale viene affrontata dai gruppi antispecisti, parlando di “concetti che derivano dal liberalismo” e che andrebbero invece “rifondati a partire dal concetto di democrazia materiale, di organizzazione della produzione, ecc.”. Può spiegare meglio questo punto?
Non è facile per ragioni oggettive. In primo luogo perché ritengo che si tratti di questioni che richiedono un lavoro teorico ancora da fare e, in secondo luogo, perché credo che queste contraddizioni possano essere risolte nel tempo solo attraverso la prassi. La teoria serve proprio a questo, a orientare l’azione, quindi è fondamentale capire (come cerco di fare io) dove l’approccio attuale al problema è fallimentare e la necessità di insistere sulla “separazione” teorica di cui lei parlava prima (e sono molto duro su questo punto, non perché non sia solidale, ovviamente, ma proprio perché penso sia importante evitare che il ragionamento politico sia viziato e reso impossibile alla radice). Tuttavia, mi sembra che la soluzione stia in un approccio dialettico: da un lato, dobbiamo pensare che tutta la questione dei “diritti” sia fuori luogo, direi addirittura che non esistono affatto “diritti sociali”, perché quando spostiamo l’attenzione dall’aspetto tecnico-giuridco a quello sociale concreto, la dimensione dei “diritti” si mostra per quello che è: vuota e formale, un’approssimazione alla cosa vera, cioè l’uguaglianza come condizione materiale per tutti mediata attraverso il processo sociale nel suo complesso. La questione dei “diritti civili” al momento è utile e non va abbandonata, perché serve a introdurre una contraddizione tra tale aspetto formale-giuridico e la sostanza sociale delle democrazie: è quindi essenziale dare visibilità alle soggettività oppresse (e certamente anche agli animali non umani) ma proprio per questo tali contraddizioni di per sé non possono far saltare quel sistema e ricostruirlo su nuove basi. Tali contraddizioni, infatti, non essendo trasferite e risolte sul piano materiale, producono come reazione la fascistizzazione dell’opinione pubblica e l’alleanza antipopolare tra le élite liberali e i nazionalisti reazionari. Questo significa che quando dico “rifondare” le basi del problema dei diritti all’interno del socialismo indico un movimento opposto ma complementare a quello che dovrebbe avvenire nei movimenti per i diritti degli animali: questi ultimi devono riformulare i loro temi in termini materialistici e sociali, il socialismo, da parte sua, deve porre le basi per una riorganizzazione del mondo che metta fine alle contraddizioni irrazionali e storicamente superate tra il mondo umano e quello naturale.
Man mano che questa possibilità di organizzare il nostro rapporto interno ed esterno con il mondo non umano diventa reale ed emergono nuove possibilità di autodeterminazione per l’umanità e le altre specie, i problemi teorici e pratici diventano più determinati. Ad esempio, trattare il problema degli animali in modo universale come facciamo oggi è astratto, è esso stesso espressione di un rapporto teorico e pratico distorto: alla fine, come dice Derrida, “l’animale” non esiste, è un singolare mostruoso, privo di senso, accettabile solo come immagine distorta del mondo non umano che opprimiamo attraverso il nostro sistema sociale. Ma anche qui l’espressione “oppressione” è generica, non opprimiamo il mondo naturale selvaggio allo stesso modo degli animali da allevamento, degli insetti come dei pesci, per non parlare delle piante…
Per uscire dal “cerchio” e tornare al tema, riprendiamo a ciò che lei ha detto: “il socialismo deve scoprire da sé la necessità di una riscoperta dell’animalità”. Quali sono gli ostacoli che si oppongono a questa “scoperta” e la “difficoltà” di realizzarla per i socialisti?
Fin dall’inizio il socialismo è scosso da questa opposizione tra “umanizzazione della natura” e “naturalizzazione dell’umanità” di cui Marx parla già nei Manoscritti. Ad esempio Antonio Labriola, importante socialista italiano della Seconda Internazionale, scrive del problema di evitare, come volevano i positivisti, la riduzione dell’uomo a una natura meccanica, ma anche l’errore opposto degli spiritualisti che separano gli uomini dalla natura, come se fossimo esseri speciali e “divini”. Ma anche in questo caso, il socialismo da solo non può liberarsi da questa contraddizione solo pensandola (come fanno tutti i socialisti da Marx ad Adorno) perché non è solo una contraddizione di pensiero, è una contraddizione reale. Quindi, la difficoltà del socialismo attuale di visualizzare in tutta la sua ampiezza il problema dell’animalità (e quindi della condizione degli animali non umani) è essa stessa un problema che possiamo cercare di chiarire teoricamente ma al quale non possiamo dare alcuna risposta vera e significativa nel “particolare”, possiamo solo indicarne le linee di tendenza, l’orizzonte che si apre all’umanità nel momento in cui diventa padrona di se stessa. L'”animalità” non è quindi affatto un problema che si introduce nel socialismo dall’esterno: socialismo e liberazione animale sono due metà di un tutto che non possiamo ricomporre a priori ma solo attraverso le vie tortuose della prassi. I socialisti sono eredi della tradizione antropocentrica e vedono giustamente nella civiltà una conquista da cui non si può tornare indietro (per questo sono sospettosi nei confronti della liberazione animale perché temono che possa porre fine alla civiltà nel suo complesso). La strategia che dobbiamo utilizzare per spezzare il lato distruttivo di tale eredità è quella della Scuola di Francoforte: mostrare che solo riconoscendo le aporie dell’antropocentrismo e della civiltà si può salvare il loro contenuto di verità. Significa usare Darwin e la scienza per decostruire l’immagine spiritualista dell’uomo, non riducendolo, come si è fatto finora, a una macchina, ma mostrando che la natura stessa è più di un semplice meccanismo cieco: dobbiamo ribadire con forza che la libertà è una condizione ontologica di tutti gli esseri viventi e che la libertà si esprime nell’umanità a un livello più alto solo perché è più “universale”. Gli esseri umani diventano veramente “umani” solo quando si prendono cura del mondo non umano, cioè abolendo la loro posizione di “privilegio”. Non ha più senso escludere in linea di principio gli animali non umani da questa “universalità”, perché tutte le obiezioni degli specisti contro questo allargamento dei concetti di democrazia, uguaglianza e libertà sono argomenti “empirici”, basati sullo stato attuale del mondo.
Esse cessano di avere valore quando immaginiamo una società organizzata su basi diverse. Tutte le difficoltà dei socialisti ad accettare questa visione sono a loro volta forme di deviazionismo borghese. Il vero attivista per la liberazione degli animali ha la possibilità di criticare i socialisti “da sinistra”. Ma deve imparare a farlo perché la sua formazione teorica lo spinge purtroppo nella direzione opposta.
Se un giorno dovesse tenere un discorso di pochi minuti sulla questione animale per i militanti dell’organizzazione e del partito socialista e comunista, cosa direbbe loro?
È una domanda molto difficile perché, come ho detto, l’aspetto teorico è molto complesso e ridurlo a poche parole rischia di produrre errori e interpretazioni sbagliate. Direi che dipende dal tipo di pubblico che mi trovo davanti accentuare di più un aspetto o un altro a seconda di ciò che mi sembra “sfuggire” nella loro prospettiva. Tuttavia, cercherei certamente di parlare dell’importanza dell’animalità per una visione materialistica e solidaristica della vita. E certamente introdurrei il discorso parlando delle cifre apocalittiche dello sterminio animale, per renderli consapevoli sia della dipendenza di queste cifre dal modo di produzione capitalistico, sia della sua insensata violenza, sia del fatto che tale violenza appare nascosta dietro la forma merce.
Ancora una volta, queste domande sono altamente speculative. Forse è meglio concentrarci sul problema concreto di oggi: come marxisti interessati alla questione animale, qual è la nostra analisi del capitalismo e come possiamo avanzare obiettivi di trasformazione del sistema verso una visione di un sistema economico che permetta la fioritura della vita umana e non umana?