Il futuro è nero, anzi nerissimo. Non che non si sapesse, certo, ma ogni giorno arrivano notizie che lo confermano. Secondo uno studio pubblicato su Science da un team internazionale di scienziati, le tecnologie attualmente utilizzate per contrastare il surriscaldamento globale potrebbero avere serie ripercussioni sull’equilibrio degli ecosistemi marini. Si tratta di tecnologie che
“permettono di aumentare la riflettività della superficie del mare, fertilizzare gli oceani […], combattere l’acidificazione delle acque, o iniettare anidride carbonica liquefatta sui fondali oceanici”
Insomma, non soltanto le attività di origine antropica stanno causando un innalzamento delle temperature che mette seriamente a rischio migliaia di forme di vita sul pianeta, ma anche gli stratagemmi tecnologici escogitati per porvi rimedio sembrano, seppur non nella stessa misura, altrettanto pericolosi.
Dopotutto, però, ciò non dovrebbe stupirci. Il problema, infatti, non sta tanto nella risposta al cambiamento climatico, quanto nella corretta domanda da porsi. Per poter intervenire efficacemente in tal senso, infatti, sarebbe opportuno prima riconoscere le cause del fenomeno. Ovvio, tutti oramai concordano sul fatto che, dalla Rivoluzione industriale in poi, le emissioni nell’atmosfera hanno comportato un drastico peggioramento della qualità dell’aria, lo sversamento di scarti industriali in mare ha causato il depauperamento della vita marina, l’introduzione dell’agricoltura intensiva ha portato a un’erosione drammatica del suolo e a un impoverimento senza precedenti dei minerali che lo compongono, con tutte le conseguenze che conosciamo riguardo alla qualità del cibo prodotto.
Ma questi fenomeni, più che cause, sono effetti di un modello produttivo che piega la tecnologia ai propri fini, un modello che non considera minimamente l’equilibrio ecosistemico, la qualità di vita della flora e della fauna che abitano un determinato ambiente, le prospettive evolutive di ogni specie. Questi non sono che ostacoli per la macchina capitalistica, che macina risorse e materie prime per riprodurre nient’altro che se stessa.
E questa macchina, seppur composta da ingranaggi umani, non solo è antiumana, ma anche antinaturale, proprio perché postasi in diretta competizione con la natura intera, da cui succhia linfa vitale senza alcun criterio.
Un esempio emblematico ce lo fornisce il progetto Sentinel-1 for Science: Amazonas, che si è posto l’obbiettivo di monitorare i processi di deforestazione che interessano oramai da più di mezzo secolo il polmone verde del pianeta: la Foresta Amazzonica. Ebbene, i risultati di questo monitoraggio ci dicono che, in appena cinque anni ovvero dal gennaio 2017 al novembre 2021, sono scomparsi oltre cinque milioni di ettari di Foresta Amazzonica, una superficie equivalente a quella del Costa Rica.
Non stiamo qui a ripetere quali sono le cause di questo processo, un processo che, purtroppo, non interessa soltanto quest’area. L’Unione Europea riassume bene in questo articolo le varie criticità.
Stiamo qui, però, a denunciare quanto ipocrite si stanno dimostrando le istituzioni internazionali nell’affrontare quella che è, forse, la più grave emergenza che la specie umana, e infinite altre con essa, sia mai stata costretta ad affrontare, un’emergenza il cui seme non risiede in millenari processi naturali di adattamento del clima ma in una logica estrattivistica ed ecocida.
Da un lato, nei palazzi del potere si stringono accordi fantoccio per adottare misure di contenimento dell’emergenza, dall’altro si continuano a finanziare, o comunque a non sanzionare, politiche di singoli stati o iniziative di grossi capitali privati che, in vista di miliardi di dollari di profitti, radono al suolo foreste, inquinano irrimediabilmente gli oceani, intossicano l’aria da cui quasi ogni forma di vita dipende.
Se non sono questi dei seri motivi per una rivoluzione internazionale è lecito domandarsi quali potrebbero essere. Nel frattempo, altri milioni di ettari di foreste vergini scompaiono.