Farina di Capitale. Insetti e collasso

L’Unione Europea ha dato il via libera alla commercializzazione della farina di grillo nei mercati del Vecchio Continente. Non si sono certo fatte attendere le furiose levate di scudi delle armate schierate in difesa del Made in Italy, del cibo tradizionale, della cultura italica. Un po’ come con il terrore dell'”invasione” dei migranti, che minaccerebbe la sopravvivenza della “nostra” cultura e comporterebbe una quasi automatica “islamizzazione” dell’Europa – poco importa che buona parte di chi arriva sulle coste italiane sia, in realtà, di fede cristiana -, l’introduzione di cibi utilizzati per lo più in Oriente spalancherebbe le porte a una degenerante orientalizzazione dell’evoluto Occidente.

Insomma, stando al sentire di questi signori, la calata dei barbari è dietro l’angolo. I loro ragionamenti, però, sono viziati da non pochi elementi contraddittori. Uno di questi è senza dubbio l’ignorare deliberatamente un dato oggettivo ossia che la cultura, e di conseguenza anche la cultura alimentare, è quasi per definizione il risultato di influenze esterne, di miscugli ininterrotti, di scambi volontari e – soprattutto – involontari tra popoli anche lontanissimi.

Prendiamo, ad esempio, il pomodoro. Chi può non considerarlo un alimento cardine della cultura gastronomica del Bel Paese? Eppure viene spesso ignorato, o volutamente taciuto, che esso arrivò in Europa dal Sud America dopo l’occupazione di Cortés all’inizio del ‘500 – e per parecchio tempo fu addirittura relegato a un ruolo esclusivamente decorativo perché ritenuto velenoso -. Se volessimo pertanto seguire i ragionamenti di questi alfieri della tradizione, dovremmo d’ora in poi rifiutare il consumo e la commercializzazione del pomodoro in quanto prodotto non autenticamente italiano.

Ecco che, allora, altre pseudo-obiezioni si affaccerebbero all’orizzonte: insomma, se anche è vero che il pomodoro non è proprio italiano al cento per cento – e chi lo è? – fa parte della nostra tradizione culinaria da così tanto tempo che possiamo ormai considerarlo nostro a tutti gli effetti. Anche qui, però, sorge un problema di ordine teorico: chi stabilisce la linea di demarcazione temporale oltre la quale ci è concesso di appropriarci culturalmente di un alimento? Insomma, perché il pomodoro è così facilmente considerabile italiano e l’arachide, che pure ha origine in Sud America ma che arriva in Italia solo duecento anni dopo, no?

L’arbitrarietà dei discorsi tradizionalistici è di un’ottusità senza pari. E lo è ancor più se si ragiona da un punto di vista storico-evolutivo. Gli insetti, infatti, hanno rappresentato per Homo Sapiens una delle prime fonti di proteine quando non era ancora stato scoperto il fuoco e ci si dedicava a caccia e raccolta come fonti primarie di sostentamento. Quindi, se anche volessimo ragionare in termini di “tradizione”, non c’è forse nulla di più tradizionale per i Sapiens del cibarsi di insetti.

Il problema del via libera alla commercializzazione di prodotti a base di insetti è piuttosto un altro.

Non basta aver addomesticato, fagocitato e sottomesso decine di specie animali per soddisfare i nostri bisogni alimentari e non solo, una sottomissione che, con l’avanzamento tecnologico, diventa sempre più brutale, rendendo l’esistenza di quelle specie un inferno vero e proprio. Non basta che, per continuare questa pratica e garantire profitti faraonici a pochissimi cartelli dell’industria alimentare, venga quotidianamente stravolto ed eroso il sempre più labile equilibrio che governa gli ecosistemi, conducendo inesorabilmente all’estinzione di intere specie animali – anche, guarda caso, di insetti – e vegetali. Non basta che la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici del settore sia parte di quell’enorme esercito di manodopera a basso costo – in particolare migrante – che garantisce, attraverso il suo sfruttamento, l’estrazione di plusvalore e la valorizzazione di enormi capitali. Non basta tutto questo.

Con la scusa di rimediare all’impatto catastrofico che l’industria alimentare – in particolare quella animale – sta producendo in termini ecologici, un disastro che può verificarsi solo laddove il profitto governa ogni scelta e orientamento produttivo a discapito della stessa sopravvivenza, i signori del cibo, con gli stati e le istituzioni loro vassalli, spingono per estendere ancor più uno sfruttamento della natura e dei suoi abitanti al fine di realizzare nient’altro che profitto. E non potrebbe essere altrimenti in un simile contesto socio-produttivo.

La natura non può che rappresentare un banale mezzo per l’accumulazione di ricchezza, uno strumento al quale è impossibile accostare termini quali relazione, armonia e coevoluzione. Mala tempora currunt direbbe qualcuno. Intanto che la cantina del grattacielo di cui parlava Horkheimer inaugura nuove camere dello sterminio pianificato, forse non resta che augurarsi che un’invasione di locuste ci aiuti a realizzare quanto fin qui soltanto teorizzato.

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