Con lo scoppio della pandemia, la categoria delle operatrici e degli operatori sanitari è finita sotto la luce dei riflettori per diversi motivi. Il primo tra questi, logicamente, è stato la loro diretta esposizione a un virus di cui, all’inizio, si conosceva poco o nulla e che, di riflesso, ha rappresentato l’operatore sanitario come una figura quasi eroica, la cui abnegazione nel combattere il patogeno è stata oggetto di ammirazione e riconoscimento mediatico – tralasciamo per il momento il fatto che la retorica dell’eroismo può benissimo esser letta come nient’altro che un dispositivo atto a mascherare la reale natura delle professioni sanitarie ossia di professioni che, come le altre, devono godere di diritti e tutele, non solo di ammirazione pubblica. Per approfondire l’argomento vi rimandiamo a un nostro vecchio contributo.
Il secondo motivo, di conseguenza, è stato l’emergere di tutta una serie di criticità inerenti l’organizzazione del settore sanitario stesso, criticità che, inevitabilmente, si sono ripercosse su lavoratrici e lavoratori, costretti a turni e ritmi di lavoro a dir poco massacranti ma che si sono resi necessari al fine di tappare le falle di un sistema che, con la pandemia, ha mostrato ancor più le sue fragilità. Ben noto è il caso di Sara Viva Sorge, infermiera di vent’anni deceduta per essersi schiantata contro un palo con la propria auto dopo la seconda notte consecutiva in reparto. La donna, così come i suoi colleghi, lavorava in condizioni ai limiti del sostenibile – scarsa quantità di personale ed alto numero di pazienti -, fattore che inevitabilmente predispone a un maggior rischio di errore sia sul luogo di lavoro, sia nel viaggio di ritorno verso casa.
Proprio l’approdo delle professioni sanitarie nel dibattito pubblico è indice del fatto che i tempi iniziano ad esser maturi per portare la riflessione sul concetto di salute e sulla natura intrinseca delle professioni sanitarie a un livello successivo.
Le professioni d’aiuto, o helping professions, sono tutte quelle professioni che hanno come obbiettivo il ristabilire o il preservare le capacità e la salute di un individuo. In sostanza, il loro obbiettivo è mantenere o tornare a quello stato di equilibrio psico-fisico e sociale che ricade sotto il concetto di salute. Considereremo principalmente quelle figure che operano nell’area medico-sanitaria (medici, infermieri, operatori socio-sanitari, ecc…) ovvero su quelle figure che, oltre a mantenere o ristabilire un buono stato di salute, hanno come fine il promuoverla attraverso l’applicazione e la diffusione di conoscenze derivanti dalla ricerca e dal progresso scientifico. Con ciò non si sta escludendo a priori che le altre figure che fanno parte delle helping professions (psicoterapeuta, counselor, ecc…) possano rientrare nella nostra analisi; riteniamo, però, che per raggiungere l’obbiettivo che in questo testo ci si propone, il discorso debba inizialmente vertere sull’area medico-sanitaria perchè maggiormente attinente all’argomento trattato.
Cominciamo col dare una definizione del concetto di “salute”. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), salute è “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non una mera assenza di malattia. Un individuo può praticare sport quotidianamente, mangiare sano, effettuare periodicamente esami del sangue e avere valori ottimi, eppure ciò non basta per definirlo un individuo in salute. Può, ad esempio, soffrire dello stato di solitudine in cui versa dopo alcune vicende personali oppure non aver ancora elaborato il trauma della perdita di un familiare o, ancora, non essersi ambientato nel nuovo contesto sociale e ambientale in cui è stato costretto a spostarsi a causa di una calamità naturale che ha distrutto la sua casa e fatto a pezzi la comunità in cui viveva – quante vittime di terremoto potrebbero rispecchiarsi in questa descrizione? -. Insomma, la mancanza del fattore psico-sociale può rendere superfluo un eccellente fattore fisico e viceversa.
Stando a ciò, chi di noi può definirsi realmente in salute? Probabilmente nessuno. Ecco perché le figure degli operatori sanitari rivestono un’importanza particolare nella nostra epoca, un’importanza che va ben al di là delle mansioni che essi possono svolgere nell’arco del proprio turno di lavoro. Già, perché se andiamo a scandagliare in profondità e a cercare le cause reali alla base dello stato di profonda insalubrità in cui versano attualmente le popolazioni umane, ci accorgiamo che buona parte dei disagi fisici, psichici e sociali che affliggono il moderno essere umano ha origine dall’assetto socio-economico che governa la nostra società. Il modo di produzione capitalistico, con gli effetti sociali, ambientali e politici che determina, si configura come un deliberato attacco alla salute. Per tale motivo la figura dell’operatore sanitario, in prima linea nel tentare di rimediare alle storture prodotte da un assetto che vive per il profitto indiscriminato, tende quasi naturalmente a delinearsi come una figura politica ossia una figura che, grazie alle conoscenze derivanti dalla ricerca, può non solo intervenire per salvaguardare la salute ma anche individuare le cause e puntare il dito contro la fonte del disagio.
Non ci si faccia però trarre in inganno. Questa capacità di riconoscere e puntare il dito contro le fonti del disagio non deriva da una qualche particolare vocazione o da una eventuale folgorazione sulla via di Damasco in grado di far percepire il proprio ruolo di operatore sanitario come nient’altro che una “missione”. Credere ciò costituirebbe una banale idealizzazione della professione. Se è vero che una certa dose di empatia e altruismo possono influire nella scelta del percorso di studi e nella pratica quotidiana, è anche vero che è assai complicato quantificarne l’influenza e determinarne il peso. Per tale motivo, i semi dell’approccio intrinsecamente politico delle professioni sanitarie, più che nell’impostazione e costituzione emotiva individuali, vanno ricercati nella razionalità intrinseca alle professioni stesse.
Per raggiungere pienamente gli obbiettivi che la professione richiede ovvero per realizzare il senso sociale del curare e del prendersi cura, i lavoratori e le lavoratrici della sanità devono prender coscienza delle potenzialità politiche intrinseche alla razionalità scientifica della loro professione. Mai come in questo caso il razionale è il politico. Proviamo a fare un esempio.
Poniamo che un cameriere lavori in un locale solitamente molto affollato, un locale in cui, per di più, nel weekend si balla. Le mansioni del cameriere prevedono il prendere le ordinazioni dai clienti e portare ai tavoli ciò che questi hanno ordinato. Abbiamo però detto che il locale è molto caotico e che nel weekend la situazione peggiora. Poniamo di essere proprio nel fine settimana. I clienti al tavolo uno, il più vicino all’entrata e il più lontano dalla cucina, vogliono ordinare. Il nostro cameriere, con la divisa perfettamente in ordine e la cordialità che lo contraddistingue, si precipita al tavolo uno. Come detto, però, nel locale c’è un baccano tremendo e la musica ad alto volume non aiuta. Malgrado la concentrazione e l’esperienza pluriennale, non è sicuro di aver compreso bene le richieste dei signori al tavolo. Più di una volta prova a chiedere conferma ma anche così l’impresa è ardua. Si dirige allora in cucina, appende il foglio della comanda al muro e va verso un altro tavolo, dove si ripete la stessa storia. Dopo un po’, dalla cucina lo avvertono che è pronto l’ordine del tavolo uno, quindi il nostro cameriere, con la consueta prontezza, prende il vassoio contenente la cena dei signori e si dirige verso il tavolo che, ricordiamolo, è il più vicino all’entrata e il più lontano dalla cucina. Intanto, al centro del locale, si è creata la solita discoteca. Per tale motivo, ad ogni passo, il cameriere, col vassoio in precario equilibrio nella mano, viene urtato da qualche cliente intento a ballare o a dirigersi di corsa in bagno. Il tragitto fino al tavolo uno è lungo e ancor più arduo in queste condizioni; non stupisce, quindi, che una volta arrivato a destinazione, sul vassoio sia rimasta soltanto una bottiglia di acqua minerale (il resto è caduto a causa degli urti) e che i clienti del tavolo uno gli facciano notare di aver ordinato una birra chiara, non l’acqua minerale. Malgrado la sua esperienza e le doti da equilibrista coltivate negli anni, il nostro cameriere ha sbagliato l’ordine, senza, peraltro, riuscire a portarlo per intero al tavolo.
Gli operatori sanitari, con i dovuti paragoni, si trovano nelle stesse condizioni del cameriere. Nonostante gli anni di studio, la preparazione e l’efficienza, il fine sociale del loro lavoro ossia promuovere e preservare la salute, può essere raggiunto solo in minima parte, a causa degli enormi ostacoli sociali, economici e ambientali che gli si frappongono.
Una donna a cui è stato diagnosticato un tumore ai polmoni e a cui è stato categoricamente sconsigliato di continuare a fumare, malgrado lo zelo con cui segue i consigli medici, comunque morirà a causa del fatto che la sua casa è a duecento metri da una fabbrica le cui esalazioni impregnano le mura del suo appartamento. Un uomo di sessant’anni in sovrappeso, a cui il medico ha vivamente consigliato di camminare almeno un’ora al giorno per buttare giù qualche chilo e abbassare una pressione che, nell’ultimo periodo, si è alzata in maniera preoccupante, comunque, a un certo punto, avrà un infarto a causa di quelle otto ore al giorno trascorse seduto alla scrivania dell’ufficio, da sommare alle due ore di viaggio quotidiane sui mezzi pubblici per spostarsi da un lato all’altro della città e “guadagnarsi da vivere”; dieci ore al termine delle quali non ha neanche la forza per pensare. Un senzatetto affetto da continue polmoniti che entra ed esce dai pronto soccorso alla fine smetterà di respirare perché, alle terapie prescrittegli dai medici, non può né affiancare un ambiente domestico caldo e asciutto, né comprare indumenti nuovi e più pesanti.
È vero che la pretesa di eliminare malattie e dolore è pura utopia e che, quindi, promuovere e preservare la salute vanno sempre intesi nei limiti del possibile; è anche vero, però, che i limiti del possibile, grazie ai progressi e alle conoscenze scientifiche raggiunte, andrebbero ben oltre se le condizioni strutturali su cui la nostra società si riproduce non generassero fenomeni che hanno come diretta conseguenza la diffusione della sofferenza sotto infinite forme. La pandemia ce l’ha insegnato: la diffusione e l’adattamento di virus e patogeni alla specie umana è un fenomeno inevitabile ma la distruzione degli ecosistemi e la rottura dei precari equilibri che governano le relazioni tra animali, vegetali e microrganismi in un determinato ambiente è garanzia certa che ciò avvenga con probabilità esponenzialmente più elevate.
Anche le contingenze belliche che stiamo vivendo in Ucraina, così come quelle che avvengono in ogni altra parte del mondo, pongono indirettamente in questione il potenziale ruolo politico degli operatori sanitari. Se alle criticità ambientali, economiche e sociali che affliggono una determinata popolazione va ad aggiungersi un conflitto armato, vien da sé che l’obbiettivo di promuovere e preservare la salute diventa ancor più complicato da raggiungere. Ecco, perciò, che oltre al soccorso medico delle popolazioni bombardate, i lavoratori e le lavoratrici della sanità, riuniti in organo politico, possono svolgere un ruolo attivo significativo per promuovere, ad esempio, politiche internazionali di disarmo. Anche qui, però, considerare i lunghi e tortuosi processi di disarmo delle nazioni del mondo senza comprendere le intricate dinamiche economiche e geopolitiche che portano alla produzione in massa di armamenti, sarebbe un esercizio faticoso privo di sbocchi concreti. Al centro della questione, dunque, torna il modo di produzione capitalistico e gli effetti che genera.
Si potrebbe obbiettare che una mole così ingente di lavoro politico non debba ricadere sulle spalle di lavoratori e lavoratrici già usurati dal turno di lavoro quotidiano, da condizioni lavorative ai limiti della decenza, da anni di studio impegnativi, da una vita privata che, come è normale, vive i suoi alti e bassi. Insomma, esistono i politici di professione proprio per questo. E allora perché individuare proprio in questa categoria un potenziale politico da esercitare al di là delle mansioni quotidiane?
Anzitutto, come già detto, per la preparazione scientifica che le stesse professioni richiedono. Poi, e qui ci si riferisce in modo particolare alle categorie collocate più in basso nella scala gerarchica del mondo della sanità, per il grado di sfruttamento e precarietà che vivono sulla propria pelle (un esempio sono gli operatori e le operatrici in forza alle cooperative, oltremodo sottopagati e sfruttati). In sintesi, le operatrici e gli operatori sanitari costituiscono una particolare sottocategoria di lavoratori che, in potenza, possiede la capacità di leggere il reale da cima a fondo, in virtù dell’approccio scientifico che la contraddistingue e del fatto che conosce direttamente le condizione di sfruttamento che il modello capitalistico prevede in tutti i settori, persino in quelli preposti a garantire un servizio pubblico e di assoluta importanza come la salvaguardia e la promozione della salute. Insomma, ha strutturalmente un’apertura sul mondo preclusa a molte altre categorie del lavoro.
Con ciò non si nega il potenziale politico di tutti gli altri settori lavorativi, anzi; si afferma, piuttosto, che l’integrazione delle lotte può finalmente beneficiare di una nuova componente la quale, grazie alle sue caratteristiche intrinseche, ha la possibilità di giocare un ruolo centrale, una componente che, per buona parte, grazie alle tutele che il settore pubblico garantisce e che è sacrosanto che continui a garantire, tende, a volte, a una fisiologica spoliticizzazione. Non serve precisare ulteriormente quanto ogni lotta sul lavoro abbia sempre, implicitamente, l’obbiettivo di migliorare e preservare quell’equilibrio psico-fisico e sociale che abbiamo imparato a far ricadere sotto il concetto di salute. Dalle lotte per salari dignitosi a quelle per la sicurezza sul luogo di lavoro, da quelle contro l’eccessivo sovraccarico di ritmi e mansioni a quelle per la regolarizzazione di intere categorie senza contratto, ognuna di queste punta a ridurre o eliminare un dolore diffuso eliminabile e non necessario.
La produzione materiale alle base della nostra società, dall’estrazione di risorse al loro trasporto, fino alla lavorazione delle materie prime e alla loro trasformazione in merci consumabili, si fonda sul dolore dello sfruttamento e dei suoi effetti collaterali (disastri ecologici, guerre, ecc…). Chi meglio degli operatori sanitari, formati per prevenire e lenire le sofferenze degli individui e in buona parte coscienti delle condizioni di sfruttamento a cui sono sottoposti quotidianamente lavoratori e lavoratrici, potrebbe fronteggiare razionalmente e politicamente quella macchina di inesauribile dolore che è il modo di produzione capitalistico?
Ma la figura dell’operatore sanitario deve la sua potenziale impostazione politica anche a un’altra questione. Per spiegarlo dobbiamo analizzare brevemente il concetto di “politica”, con cui normalmente si intende l’insieme dei processi e delle dinamiche che avvengono nei parlamenti e nei palazzi del potere ma che, in realtà, racchiude un significato assai più ampio, un significato che ci suggerisce la stessa etimologia. Infatti, questo deriva dal greco politikḗ, solitamente tradotto con “arte di governo” ma che, in senso più esteso, sta ad intendere “ciò che attiene alla polis“. Sorge spontaneo, adesso, domandarci cosa si intenda oggigiorno per “polis“. Di certo non più la città-stato dell’antica Grecia, contesto in cui il termine sorse.
Oggi, la polis è un’entità globale, in cui i problemi di una parte diventano i problemi di tutti, in cui, grazie alle conoscenze derivanti dal progresso scientifico, si sta pian piano diffondendo la coscienza dell’inestricabile legame tra chiunque la abiti. E qui sta il punto: chi abita la polis globale? Cosa significa “abitare”? É quasi automatico rispondere che ad abitare la polis globale sono cittadini e cittadine di ogni classe, razza, età, sesso e genere. Non solo, dunque, i rappresentanti della società benestante ma la totalità degli esseri umani che calpesta il suolo di questo pianeta, il cui 99% è rappresentato da quella massa di lavoratori e lavoratrici che, col proprio sudore, sorregge e alimenta la riproduzione materiale del nostro mondo. In sostanza, dal proletariato nella sua nuova composizione, in quel suo “essere all’interno del capitale, a sostegno del capitale“, composto da infinite forme di lavoro “soggette alla disciplina e alle relazioni di produzione capitalistiche” [Cfr. Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Hardt e Negri, Rizzoli, 2002, p.65]. Questa riproduzione materiale, come detto, affonda le sue radici nella sofferenza e nel dolore dello sfruttamento che la macchina capitalistica, direttamente o indirettamente, produce.
Se, quindi, il carattere dominante di questo 99%, ossia del proletariato, è la sottomissione a un dolore finalizzato alla concentrazione sempre più estrema della ricchezza mondiale, cosa ci impedisce di far rientrare nell’insieme degli abitanti di questo mondo coloro la cui dolorosa esistenza non solo ha costituito, come sostiene il sociologo americano David Nibert nel suo Animal oppression & human violence, una delle basi necessarie alla nascita del modo di produzione capitalistico, ma ancora oggigiorno, in forme più estese e terribili, rappresenta un pilastro della produzione materiale capitalistica? Cosa ci impedisce di considerare, al fianco del dolore degli umani sfruttati, quello degli animali non umani?
Da una prospettiva economica, culturale e simbolica, le argomentazioni in favore dello sfruttamento animale possono essere diverse, soprattutto perché la struttura materiale capitalistica, nel proprio interesse, continua a produrre una sovrastruttura ideologica tesa a giustificare pratiche di uccisione e sfruttamento dei non umani, un po’ come la narrazione dell’imprenditore benefattore che crea lavoro e “dà da mangiare alla gente” funziona da maschera dei processi di estrazione di plusvalore e accumulazione di profitto.
Da una prospettiva scientifica e razionale, però, una prospettiva che, come detto più volte, è intrinseca alle professioni sanitarie, quali argomentazioni potrebbero essere usate in favore della prosecuzione dello sfruttamento animale? Il principio di non discriminazione alla base dell’elargizione di assistenza e cure mediche, un principio centrale nei codici deontologici medici e infermieristici – sia nel codice di deontologia medica che in quello delle professioni infermieristiche è all’articolo 3 -, affonda la propria ragion d’essere in una profonda conoscenza dell’anatomia e della fisiologia. Tale principio arriva a raccomandare uguale trattamento a prescindere da sesso, età, nazionalità, classe sociale, credo politico e religioso, solo in apparenza per un’astratta idea di “umanità”. In realtà, tale impostazione etica delle professioni sanitarie discende dalla consapevolezza dell’assoluta ininfluenza delle differenze sessuali, anagrafiche, etniche, ecc… quando si parla di esperienza e percezione di dolore e sofferenza. La presenza di organi e apparati preposti a tali funzioni, in questo caso sistema nervoso centrale e organi di senso, presuppone l’automatico diritto a ricevere, laddove richieste, cure finalizzate a lenire dolori e sofferenze. Non una banale e astratta “umanità”, dunque, ma una conoscenza precisa degli effetti della presenza di un’impalcatura sensoriale comune a quasi tutto il regno animale.
Ma se quest’impalcatura sensoriale è trasversale, come detto, al regno animale, cos’è che produce l’ingiustificata distinzione tra il dolore umano e quello non umano? Sta qui il cortocircuito logico in cui ancora sono impantanate quelle discipline e professioni che si pongono il fine di combattere il dolore e la sofferenza negli esseri umani, una contraddizione che stride ancor più se si considera che la sperimentazione di farmaci e terapie avviene infliggendo dolore in esseri perfettamente in grado di esperirlo, al fine di attenuarlo in altri ugualmente senzienti. Se è vero che argomentazioni di questo tipo possono apparire banali e in parte superate per chi già ha avuto modo di imbattersi nel dibattito sui diritti animali, è anche vero che il contesto in cui le stiamo utilizzando differisce da quello solito. Ad esempio, la tesi spesso utilizzata secondo cui non mangeremmo mai un bambino ma non ci facciamo problemi a mangiare cuccioli di altre specie si concentra sull’agire individuale del consumatore con l’intento di generare un’inversione di rotta morale e, quindi, il rifiuto di continuare a cibarsi di animali non umani. Nel nostro caso, invece, l’obbiettivo non è la moralizzazione dell’agire comune, quanto lo smascheramento della razionalità fittizia su cui pretende di fondarsi l’attuale approccio scientifico.
Ad esempio, il National Research Council of the National Academies statunitense, nel suo report Recognition and Alleviation of Pain in Laboratory Animals, conclude, dopo aver analizzato approfonditamente tutte le variabili in questione, che “tutti i vertebrati dovrebbero essere considerati in grado di esperire dolore“. La dissonanza tra le evidenze portate da un organo scientifico – così come da tanti altri – e la pratica quotidiana, mette in luce come, malgrado le acquisizioni in termini di conoscenza, si perseguano fini scientifici ignorando parte dei dati a nostra disposizione. Ciò configura l’attuale approccio come un approccio politico più che scientifico, intento a fondare la propria ragion d’essere non sulle evidenze a disposizione ma sull’esclusione politica di parte del vivente. In questo caso, a differenza di prima, il razionale non è il politico bensì il contrario. Le evidenze scientifiche ci suggeriscono che il dolore è trasversale eppure viene operata una frattura di questa trasversalità con la selezione arbitraria di soggetti (specie) il cui dolore è doverosamente eliminabile, mentre si considera “tollerabile” il dolore degli altri per i fini più disparati.
Il raggiungimento della consapevolezza di queste falle nell’impostazione razionale e scientifica, impostazione da cui necessariamente afferiscono anche le professioni sanitarie, non costringe soltanto a considerare l’allargamento dell’universo del dolore al di là dei confini umani ma costituisce una sorta di “coscienza di classe” fondata sulle potenzialità di liberazione di buona parte del regno animale – specie umana compresa – da un dolore cieco e superfluo. Il “valore d’uso” che i lavoratori e le lavoratrici della sanità producono quotidianamente non ha confini materiali, non può essere confinato in una merce. Esso travalica tutte le teorizzazioni sul “prodotto” proprio perché immateriale e universale; immaterialità e universalità che lo rendono essenzialmente fluido, traslabile, esageratamente orizzontale.
Il lavoro che si dedica alla cura delle persone è certamente incarnato da un corpo, ma gli effetti che esso produce sono nondimeno immateriali. Il lavoro affettivo produce reti sociali, forme di comunità, biopotere.
E ancora:
Nelle espressioni della sua potenza creativa, il lavoro immateriale sembra quindi esprimere virtualmente un comunismo spontaneo ed elementare.
Questo è ciò che scrivono Hardt e Negri in Impero. Il “valore d’uso” che producono i professionisti sanitari è una guerra dichiarata al dolore, si configuri, esso, come riduzione o totale eliminazione dello stesso, una guerra che, in automatico, delinea come obbiettivi tutti i meccanismi atti a diffonderlo e rafforzarlo, incluso il modo di produzione capitalistico, il modo di produzione del dolore per eccellenza.