Abbiamo tradotto questo articolo di Vanessa Daza e Ariana Athena Lippi, pubblicato nell’Aprile 2019 su dejusticia.org. Il testo si sofferma sui legami tra l’oppressione di genere e lo sfruttamento della natura nell’attuale modello capitalistico e porta avanti un’analisi che può benissimo adattarsi anche alla situazione pandemica che stiamo vivendo, i cui esiti non sono slegati dall’assetto socio-economico-culturale imperante.
“Il cambiamento climatico è un problema causato dall’uomo con una soluzione femminista”. È ciò che afferma Mary Robinson, primo presidente donna dell’Irlanda e attuale attivista per l’uguaglianza di genere e la giustizia climatica. In questa dichiarazione, Robinson suggerisce che, per un problema ambientale urgente e di enorme portata come il cambiamento climatico, il femminismo propone una nuova soluzione. Ma, esattamente, cosa offre il femminismo all’ambientalismo? Cosa può fornire un movimento incentrato sull’emancipazione delle donne da un sistema sociale, politico, economico e culturale oppressivo a un movimento focalizzato sulla salvezza della specie umana dall’estinzione?
Sicuramente appaiono come due battaglie differenti. Ad ogni modo, da decenni esiste un fronte che vede la degradazione ambientale e l’ineguaglianza di genere come due facce della stessa medaglia. L’Ecofemminismo, emerso come conseguenza quasi inevitabile della sinapsi tra i movimenti femministi ed ecologisti degli anni settanta e ottanta, si basa sulla premessa che le forme di oppressione sono correlate. Esso mira a stabilire una connessione tra la degradazione ambientale e l’oppressione delle donne. Secondo ecofemministe come Maria Mies e Vandana Shiva, tale connessione deriva da una radice comune di dominio: la struttura di potere patriarcale-capitalistica. Essa unisce la comprensione e l’organizzazione binarie del mondo tipiche del patriarcato (uomo/donna, umano/natura), le quali si manifestano in un ordine sociale gerarchico in cui alcuni sono superiori agli altri, con la logica capitalistica della creazione e dell’accumulazione di ricchezza al minor prezzo possibile come unica forma di progresso per le società. Questa associazione tra patriarcato e capitalismo si risolve in una struttura binaria e gerarchica che promuove e giustifica la superiorità del soggetto “umano” maschio e bianco, e che porta a considerare l’Altro in opposizione e, perciò, inferiore. Donne e natura, quindi, possono essere utilizzate dal maschio bianco a suo piacimento, il quale va avanti e prospera a loro spese.
Oltre a spiegare la correlazione tra l’oppressione che donne e natura subiscono, l’ecofemminismo prova a mostrare che, piuttosto che due battaglie parallele, femminismo e ambientalismo sono intrecciati, al punto che i progressi o le battute d’arresto di uno si riflettono e ricreano nell’altro. A tal proposito, come suggerisce l’autrice ecofemminista Rosemary Radford Ruether, soltanto nella misura in cui coordineremo gli sforzi saremo in grado di sradicare l’ineguaglianza di genere e raggiungere una soluzione per la crisi ecologica che stiamo vivendo.
Uno dei problemi ambientali che meglio esemplifica questa interdipendenza tra femminismo e ambientalismo è il cambiamento climatico. Per rallentare l’innalzamento delle temperature globali, in modo da garantire la sopravvivenza dell’essere umano, è necessaria una soluzione femminista, così come colmare i gap sociali, economici e politici tra uomini e donne dipende dal nostro lottare con successo contro il cambiamento climatico.
Perchè il femminismo dovrebbe occuparsi della battaglia contro il cambiamento climatico? Perché, come ben documentato, le donne – in particolare le donne povere – sono quelle che devono sopportare il peso maggiore dei suoi effetti. Ciò include non solo le donne dei paesi in via di sviluppo ma anche le donne nere, indigene e trans, le quali fanno esperienza di differenti forme di discriminazione che si traducono in più alti livelli di povertà.
Come sostiene un report del 2016 del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il cambiamento climatico sta avendo e continuerà ad avere serie ripercussioni sull’agricoltura e la sicurezza alimentare. Ciò affligge innanzitutto le popolazioni dei paesi in via di sviluppo, in particolare le donne, che dipendono maggiormente dall’agricoltura per il sostentamento. Per prima cosa, le donne sono le prime responsabili dell’approvvigionamento di cibo e acqua per le loro famiglie; nelle zone in cui gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire di più, le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze, il che si traduce in un minor tempo da dedicare all‘educazione e in una maggiore esposizione a rischi per la salute e a violenza. Analogamente, solo tra il 10 e il 20 percento delle donne che costituiscono la forza lavoro del settore agricolo nei paesi in via di sviluppo possiede diritti fondiari. Ciò limita il loro accesso a prestiti agricoli, i quali potrebbero, d’altra parte, permettere loro di ridurre la vulnerabilità delle colture e di continuare a vivere d’agricoltura. Cambiare lavoro è un’altra opzione non facile, date le molte barriere legali che le donne devono fronteggiare per avere accesso alle stesse opportunità lavorative degli uomini. La somma di tali fattori ci porta a concludere che le donne hanno e avranno più difficoltà degli uomini per assicurare il proprio sostentamento e quello delle loro famiglie nei luoghi in cui il cambiamento climatico si fa sentire con più forza.
Un report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mostra anche i modi unici in cui la salute delle donne può essere maggiormente influenzata da eventi climatici estremi rispetto a quella degli uomini. Esso afferma, ad esempio, che siccità, inondazioni e temporali uccidono più donne che uomini. In un ciclone verificatosi in Bangladesh nel 1991, il 90% dei 140.000 morti erano donne. Uno studio svolto a seguito di un alluvione a Sarlahi, Nepal, nel 1993, ha trovato che il più elevato tasso di mortalità tra le donne era dovuto a pratiche discriminatorie nella distribuzione di cibo e cure mediche, dato che gli aiuti umanitari davano la precedenza agli uomini. Il report ha mostrato anche che le donne hanno più probabilità di morire per ondate di calore ed epidemie di malaria associate all’innalzamento delle temperature. Tali numeri potranno solo che crescere con la maggior frequenza di disastri naturali causati dal cambiamento climatico.
Il cambiamento delle temperature sta anche esponendo donne e ragazze a un maggior rischio di violenza sessuale, sfruttamento sessuale, tratta e violenza domestica, specialmente nelle situazioni d’emergenza dopo i disastri naturali. Così ha concluso il World Disasters Report del 2007, che dimostra, ad esempio, che dopo lo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano, molte donne e ragazze provenienti da Sri Lanka, Aceh e India furono costrette a sposare i “vedovi dello tsunami” a causa del fatto che le loro famiglie non potevano più sostenerle. Quando l’uragano Michael toccò il terreno della Florida nell’Ottobre del 2018, la violenza domestica aumentò tra le famiglie colpite. Come sostiene Meg Baldwin, direttrice del Refuge House attention center for victims of domestic violence, durante l’uragano i loro centri in Florida ricevettero il doppio delle donne rispetto al solito. Malgrado queste statistiche, l’impatto dei disastri naturali sugli indicatori di violenza domestica viene spesso ignorato.
Poichè il cambiamento climatico continua a inasprire la vulnerabilità delle donne e a incrementare il gender gap, è cruciale che il movimento femminista guardi in direzione degli sforzi ambientalisti per salvare il pianeta e l’umanità. La promessa di uguaglianza è sempre più lontana dopo ogni pioggia, siccità o tempesta causate dal cambiamento climatico.
Allo stesso modo, il movimento ambientalista deve sostenere le lotte femministe se esse puntano a garantire l’efficacia di misure per adattarsi e mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Il report dell’OMS citato precedentemente suggerisce che l’efficacia dei protocolli per la riduzione e gestione del rischio migliora quando questi includono le donne nel corso delle fasi di ideazione e realizzazione. Ad esempio, negli stati indiani del Maharashtra e del Gujrat, quando le donne furono coinvolte nelle operazioni dei programmi di soccorso a seguito di un terremoto, la loro capacità di focalizzarsi sullo sviluppo delle capacità e sulle soluzioni a lungo termine fu essenziale per l’impatto delle operazioni. La loro partecipazione fu anche cruciale per la diffusione delle misure di soccorso e la raccolta di risorse per aiutare le famiglie colpite. Il supporto e la prospettiva più olistica delle donne fu una chiave nel rafforzamento della resistenza delle comunità. In modo analogo, un report della cinquantaduesima sessione della commissione delle Nazioni Unite sullo Status delle Donne sostiene che, a causa della storica responsabilità che le donne hanno avuto nell’accaparramento delle risorse per le proprie famiglie e comunità, esse posseggono una conoscenza inestimabile dell’ideazione di strategie atte a garantire la sussistenza in nuovi scenari ambientali.
Nonostante questo, le donne rappresentano solo il 30% dei membri delle istituzioni scientifiche di tutto il mondo, le quali sono una parte essenziale del lavoro sul cambiamento climatico. Inoltre, nella gran parte dei paesi del mondo, le donne non hanno la giusta rappresentanza all’interno degli organi governativi responsabili delle decisioni sul cambiamento climatico. Queste differenze limitano la possibilità che le voci, l’esperienza e il sapere delle donne siano incluse nelle politiche pubbliche, sebbene la loro inclusione sia fondamentale per una politica climatica efficace, olistica e sostenibile. Tra le altre cose, l’ambientalismo ha bisogno del femminismo per quelle lotte che puntano ad aprire, alle donne, spazi per raggiungere posizioni di potere; gli sforzi femministi per sradicare il gender gap sono esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per superare, in modo efficace ed equo, le sfide che il cambiamento climatico pone all’umanità.
Il movimento #MeToo ha guadagnato molta popolarità negli ultimi anni e ha generato, come mai si era visto, un dibattito più aperto e pubblico a proposito di aggressioni, violenza sessuale e discriminazione di genere. Allo stesso tempo, centinaia di migliaia di persone si sono riunite per marciare per le strade e i giovani hanno organizzato scioperi studenteschi globali per chiedere che i governi adottino immediate misure per rallentare il cambiamento climatico. In questo momento storico, per coloro che si muovono tra i due movimenti, adottare una prospettiva ecofemminista che permetta di coordinare entrambe le battaglie può essere un importante e strategico stimolo per costituire una voce collettiva e più efficace contro un sistema che sta letteralmente distruggendo il pianeta e perpetuando una società iniqua e insostenibile. Coordinarsi insieme, supportarsi l’un l’altro e sfruttare al meglio questi momenti di effervescenza possono tradursi in una schiacciante combinazione per eliminare, o quanto meno destabilizzare definitivamente, le nostre obsolete e dolorose strutture d’oppressione.
Un pensiero riguardo “Due lotte in una: femminismo e ambientalismo”