Quando David Quammen, nel suo Spillover, si chiede se il Next Big One, ovvero la prossima pandemia, si scatenerà da un virus diffusosi dalla foresta pluviale o da un mercato cittadino della Cina meridionale, non sa che, da lì a pochi anni, il suo interrogativo risulterà sinistramente profetico. Scienziati e ricercatori, infatti, sembrano oramai abbastanza concordi sull’origine animale della pandemia di COVID-19, il cui primo focolaio accertato si è – casualmente – verificato in un wet market di Wuhan o, per dirla con le parole di Quammen, in “un mercato cittadino della Cina meridionale”.
Ma se errare è umano, perseverare è diabolico e mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità invia team di esperti nella regione dell’Hubei per trovare risposte alle domande ancora insolute a proposito di Sars-Cov-2, nuovi scenari pandemici vedono, giorno dopo giorno, statisticamente in rialzo la possibilità di verificarsi e, in sostanza, fare una strage. A tal proposito, partiamo da una notizia di qualche settimana fa.
L’influenza aviaria è causata da un virus influenzale di tipo A che, come riporta l’Istituto Superiore di Sanità, è un virus altamente instabile e soggetto a numerose mutazioni durante la replicazione del DNA. “I virus di tipo A possono andare incontro a riassortimenti del proprio materiale genetico”, processo nel corso del quale possono acquisire “geni provenienti da virus umani, che li rendono quindi facilmente trasmissibili da persona a persona”. La possibilità che un virus dell’influenza aviaria contagi l’essere umano, al momento, è circoscritta alle occasioni di contagio diretto tra volatili (polli, anatre, ecc…) ed esseri umani, come nel caso dei sette contagiati russi, i cui sintomi sembrano essersi manifestati in forma lieve.
Il fatto, però, che H5N8, virus appartenente al sottotipo H5 il quale, assieme ad H7, è considerato un agente ad alta patogenicità, si sia manifestato in un essere umano ovvero abbia compiuto il cosiddetto salto di specie, lo spillover, deve iniziare a destare più di una preoccupazione. Ciò per due motivi, come ci ricorda sempre l’Istituto Superiore di Sanità. Il primo è che il percorso clinico del virus H5N1, appartenente al sottotipo H5 come H5N8, si è dimostrato essere particolarmente aggressivo per l’essere umano, “con rapido deterioramento e alto tasso di mortalità” (circa la metà delle persone infettate sono morte). Il secondo, che desta timori ancor più grandi tra le autorità sanitarie, è che, come già detto, il virus muti “in una forma altamente infettiva per l’uomo e che si diffonda con facilità da persona a persona. Questo cambiamento potrebbe segnare l’inizio di una epidemia globale (pandemia)”.
E i meccanismi affinché ciò possa avvenire sono due: il riassortimento, attraverso lo scambio di materiale genetico tra virus umano e virus aviario, e la “mutazione adattiva”, in cui la capacità del virus di attaccarsi a cellule umane aumenta nel corso di successive infezioni verso l’essere umano. Tutti gli indizi, quindi, ci inducono a pensare che le condizioni di ammassamento tipiche delle pratiche di allevamento, ideali per la trasmissione di patogeni tra gli stessi animali, e le occasioni di contatto tra umani e volatili siano le precondizioni essenziali affinché l’influenza aviaria possa diventare un’influenza umana e, nel peggiore dei casi, una pandemia.
Prendiamo, quindi, come spunto di riflessione un articolo di Repubblica dello scorso Ottobre, in cui si afferma che
le variazioni dei prezzi, i problemi di salute e i temi ambientali potrebbero spingere i consumatori a rallentare il consumo di carne rossa a favore di quella avicola, destinata invece a registrare un rapido e considerevole aumento
E ancora:
I dati sono riportati nel rapporto redatto dall’OCSE e dalla FAO che prevedono infatti che il consumo globale di carne di pollo aumenterà di 145 tonnellate nel corso dei prossimi dieci anni, rappresentando il 50% dei nuovi consumi di carne.
Cosa si cela alla base di questo drastico incremento della produzione e del consumo di carne di pollo? Non certo i motivi addotti da Repubblica, bensì uno ben più importante. Come riporta la stessa FAO, in risposta alla diffusione – guarda caso! – di un’altra malattia, la PSA (Peste Suina Africana), che ha interessato il più grande produttore mondiale di carne suina, la Cina, la produzione si è dovuta necessariamente dirigere verso altri tipi di carne, in particolare verso la carne di pollo, un settore che, soltanto in Italia, arriva a sfiorare un fatturato di 8 miliardi di euro e che, a livello globale, raggiunge picchi altissimi.
Un sacco di soldi, dunque. E laddove la prospettiva di accumulare denaro e capitale si fa più realistica, ecco che tutti gli sforzi tendono a concentrarsi su quel settore, poco importa delle conseguenze. Questo è il motivo per cui il focolaio di H5N8 in Russia dovrebbe destare enorme preoccupazione. Se questo virus, come detto, ha la forte capacità di mutare e compiere il cosiddetto spillover, le possibilità che ciò accada realmente non sono slegate dai trend economici e dalle prospettive di investimento.
Più è allettante il mercato del pollame e più è alto l’impegno per trarne il profitto maggiore, più si allarga la produzione e più si moltiplicano le occasioni per il virus di contagiare l’essere umano e, di conseguenza, scatenare una nuova pandemia i cui esiti, al momento, sarebbero incalcolabili, anche alla luce della concomitanza con quella in corso.
Lo sfruttamento degli altri animali non si caratterizza più soltanto per i problemi etici, politici ed ecologici che sottopone alla coscienza dell’opinione pubblica. Esso è oramai, a tutti gli effetti, un problema di sicurezza sanitaria globale, una vera e propria bomba batteriologica (ricordiamo anche il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, sempre più diffuso a causa dell’ingente uso di antibiotici sugli animali detenuti e ammassati negli allevamenti) e virale pronta a detonare, come già il COVID-19 ci ha fatto intendere.