Il movimento dell’Homo Sapiens contro l’Homo Sapiens per salvare l’Homo Sapiens

Abbiamo tradotto questo interessante contributo di Ivan Marovic, tra le personalità più di spicco di Otpor!, movimento sociale impegnato contro il regime di Slobodan Milošević in Serbia. L’articolo è apparso in lingua inglese sul sito Ecosocialist Horizons nel 2013. Anche se un po’ datato, riteniamo che i contributi teorici che propone meritino la giusta attenzione.

Nell’anno appena trascorso (2011) abbiamo assistito a sconvolgimenti senza precedenti in tutto il mondo: la Primavera Araba in Medio Oriente, la sollevazione degli Indignados in Spagna e le proteste nel Wisconsin seguite da Occupy Wall Street negli Stati Uniti, solo per citarne alcuni. In ognuno di questi casi, le persone sono scese in strada per esprimere le proprie rimostranze e protestare contro l’ordine delle cose vigente. Alcune di queste proteste hanno fatto progressi significativi, rovesciando dittature decennali, mentre altre hanno avuto risultati limitati, perlomeno fino ad ora. Tanto per cominciare, esse hanno poco in comune ed è davvero difficile utilizzare un unico strumento di analisi per prevedere quale impatto a lungo termine potrebbe avere ognuna di esse. Questo è il motivo per cui, quando analizzo questo tipo di eventi (e alla luce della mia stessa esperienza come organizzatore nel movimento di resistenza contro Slobodan Milosevic in Serbia negli anni ’90), uso la seguente “regola del pollice”: le possibilità di successo di una lotta crescono rapidamente se la protesta si trasforma in movimento.

La trasformazione da protesta a movimento è importante perché, solitamente, una lotta politica richiede tempo e le proteste non durano abbastanza a lungo per generare l’effetto necessario. L’energia di una protesta, per quanto affascinante, si esaurisce piuttosto velocemente, il suo slancio si riduce e la protesta finisce, a volte raggiungendo obbiettivi a breve termine ma raramente sulla lunga distanza. Ciò non significa che è necessario abbandonare la protesta come metodo di lotta politica per dedicarsi, invece, a qualche “lungo cammino attraverso le istituzioni”. Al contrario, si dovrebbe comprendere meglio la protesta in quanto fenomeno e utilizzare la sua forza mentre si provano ad evitare le sue debolezze. Ciò su cui si dovrebbe lavorare è la trasformazione della protesta in movimento, un’organizzazione dinamica che possiede l’energia e la forza di una protesta e, allo stesso tempo, la longevità di un’organizzazione.

La questione, almeno per un osservatore, è: in che modo possiamo accorgerci del passaggio da protesta a movimento? Riconosceremo un movimento quando ne saremo mossi. Sebbene sia una tautologia, ciò la dice lunga sul potere trasformazionale dei movimenti sociali nel cambiare non soltanto le politiche ma anche le attitudini, i valori e i comportamenti delle persone. Alla fine, chiunque si accorge che è un movimento e non una mera protesta. Ma per riconoscere questo passaggio mentre sta avvenendo, c’è un determinato numero di cose che bisogna verificare: se il gruppo di manifestanti considerato dà inizio agli eventi piuttosto che reagirvi; se esso pianifica sul lungo termine; se apre al dialogo e stringe alleanze. Se il gruppo considerato sta facendo queste cose, allora ha compiuto il primo e più importante passo nella transizione dal ragionare tatticamente, caratteristico delle proteste, al ragionare strategicamente, osservabile in un movimento.

Ma per quale motivo è indispensabile questo ragionamento strategico? L’autore italiano Curzio Malaparte conclude il suo “Coup D’etat: The Technique of Revolution” affermando che “la conquista e la difesa dello Stato non sono un problema politico… bensì tecnico” (Malaparte 1932, ultimo paragrafo dell’epilogo). Come organizzatore ed educatore nel campo della resistenza civile, anch’io mi sono concentrato più sugli aspetti tecnici della costruzione di un movimento, che su quelli politici. Ho visto molte volte buone politiche perdere a causa di strategie mediocri (o inesistenti). Sappiamo anche di forze politiche sinistre, persino maligne, che hanno vinto grazie alle loro strategie superiori.

Esaminiamo per un momento il processo di creazione di una strategia per un movimento di massa. In cosa differisce rispetto a un’organizzazione classica, in cui la strategia è delineata dai metodi e dagli statuti dell’organizzazione, nonché creata ed applicata dalle sue strutture? Il movimento è diverso da un’organizzazione politica perché dinamico (non esiste quando inattivo, deve muoversi per essere un movimento) e perché è organizzato al di fuori della sua struttura (le persone non hanno bisogno di aderire a un movimento per farne parte). Non ci sono regole scritte, né commissioni, né gruppi di lavoro, nulla in cui poter formulare, applicare ed esaminare un complesso piano strategico. Se è così, come potrà mai, un movimento, essere strategico? 

La strategia finale di un movimento non è un piano generale, delineato, applicato, valutato e corretto. La strategia di un movimento di massa è più come una cultura, come una serie di metodi e obbiettivi, linee guida che i sostenitori di un movimento usano per conto proprio, indipendentemente dalla sua leadership. La natura di massa di un movimento rende difficile la coordinazione e impossibile la centralizzazione dei processi decisionali. Ogni gruppo e ogni individuo devono essere messi nelle condizioni di poter prendere decisioni e agire senza l’approvazione o anche le direttive della leadership. Ciò è vero soprattutto quando si impiegano scioperi, boicottaggi e altre forme di resistenza civile, e quando l’insicurezza, il caos e l’interruzione delle comunicazioni impediscono alle classiche organizzazioni gerarchiche di operare. In tali circostanze, i sostenitori sono armati della propria strategia in forma di cultura del movimento, redatta in una serie di regole e convinzioni, e prendono decisioni per conto proprio nei limiti di ciò che il resto del movimento sta facendo. Essi hanno abbastanza autonomia per agire ma anche chiari confini per le loro azioni definiti dalla strategia, in modo che esse siano parte integrante di un’impresa più ampia.

Questo è il motivo per cui la strategia di un movimento necessita di essere predeterminata ossia deve essere relativamente ben definita prima che il movimento diventi ampio e popolare. Ciò perché è impossibile essere d’accordo su una strategia comune in un movimento di massa, quando le strutture non rappresentano tutti i sostenitori, i quali ammontano a decine di migliaia o persino a centinaia di migliaia. Una strategia predeterminata è sostanzialmente una proposta al membro e al sostenitore potenziale: accettandola, si prende parte al movimento e si è vincolati alle linee guida determinate dalla strategia. Tuttavia, tale strategia deve lasciare abbastanza spazio per l’iniziativa e l’autonomia locali; ciò perché solo un movimento confederato può evitare il possibile allontanamento dei suoi sostenitori nel momento in cui diventa grande al punto che il loro diretto coinvolgimento nei processi decisionali risulta impossibile e l’introduzione della rappresentanza aggiunge nuovi livelli di disordine organizzativo.

Un elemento importante della strategia di un movimento è la sua ideologia. Ogni movimento sociale è ideologico per definizione, sin da quando necessita di organizzarsi attorno a una serie di metodi e obbiettivi. In altre parole, l’ideologia è parte fondamentale della strategia finale di un movimento e gioca un ruolo di primo piano nel momento in cui esso viene riconosciuto come forza sociale. Ma la domanda è: quale dovrebbe essere il ruolo dell’ideologia nella costruzione di un movimento, in particolar modo in quella critica fase iniziale della transizione da protesta a movimento? A mio parere, un movimento dovrebbe costruire la sua ideologia lentamente, man mano che cresce e guadagna sostegno. Al giorno d’oggi, le ideologie sono spesso viste come già date, predefinite, a volte persino scolpite nella pietra. “Ideologo” è quasi sinonimo di dogmatico e anche il termine “ideologia” è spesso utilizzato in senso dispregiativo. Ma ciò che più colpisce è il modo in cui le ideologie appaiano datate. Ciò è più evidente nei nomi attribuitigli nel diciannovesimo secolo: liberale, socialista, nazionalista, comunista, ecc… Il movimento ambientalista è un’importante eccezione, in quanto ideologia non formulata prima degli anni ’70. Ma anche qui, il diffuso fraintendimento tra la gente comune è che la politica verde sia soltanto una variazione di impostazioni ideologiche già esistenti, una variazione che semplicemente aggiunge il prefisso “eco” al nome novecentesco: ad esempio, l’ecosocialismo sarebbe solo un socialismo colorato di verde anziché di rosso.

Nulla è più fuorviante del ritrarre l’ecosocialismo come l’ennesima forma di socialismo, perché esso non si occupa soltanto della questione ideologica di creare una società migliore ma anche della questione pratica della sopravvivenza dell’Homo Sapiens. E l’Homo Sapiens ha bisogno di riconoscere tale questione pratica come la più importante. Per intraprendere questo difficile compito necessitiamo di un movimento con una strategia predeterminata, accompagnata da un’ideologia viva e in evoluzione. La predeterminazione della strategia garantirà il consenso sugli obbiettivi a lungo termine e sui metodi, ma dovrebbe permettere un elevato grado di libertà di azione a gruppi e individui all’interno della struttura confederata del movimento e all’infuori di essa. La leadership, in questo caso, non è una sorta di commissione che guida il movimento; essa è un variegato gruppo di molte individualità in grado di concepire la strategia finale, di predeterminarla e di garantire che rimanga all’interno dei limiti concordati, garantendo ai membri e ai sostenitori, ma anche ai nuovi arrivati, di guidare e far crescere l’ideologia del movimento attraverso il coinvolgimento e le azioni personali.

Per vedere come ciò possa realizzarsi, diamo un altro sguardo alle insurrezioni avvenuto in tutto il mondo negli ultimi anni e che ho citato all’inizio. Malgrado le evidenti differenze, c’era una cosa che queste avevano in comune: hanno portato la lotta al di fuori delle istituzioni esistenti. Quando si perde fiducia nelle istituzioni che compongono il sistema, quando il sistema stesso perde di legittimità, e nel momento in cui le persone aderiscono a un movimento per impegnarsi in attività politiche extra-istituzionali, il tempo è maturo per una rivoluzione, la quale, sostanzialmente, modifica e altera le pratiche e le istituzioni correnti. Pertanto, l’obbiettivo di un movimento è creare una rottura in grado turbare le pratiche e le istituzioni correnti, trasformandole o rimpiazzandole con delle nuove.

Nel caso in cui il movimento avesse a che fare col problema della sopravvivenza dell’Homo Sapiens, generare questa rottura non sarebbe semplice, perché non si tratterebbe di affrontare una coercizione politica che è necessario smascherare, bensì di lottare contro l’egemonia culturale del consumismo. L’egemonia culturale, così come la definisce Antonio Gramsci, è un “buonsenso” artificiale, una serie di norme percepite come naturali e inevitabili. Per combattere e sconfiggere questa egemonia culturale, il movimento ha bisogno di trasformare gli stili di vita e le visioni del mondo dei singoli, aiutandoli a passare attraverso una trasformazione personale che in futuro assicurerà una trasformazione politica. A causa della natura del problema che si trova ad affrontare (la sopravvivenza dell’Homo Sapiens), questo movimento necessita di essere davvero globale. Esso deve trasformare individui che vivono in circostanze differenti e creare un’intera serie di stili di vita alternativi che le persone possano accogliere. Tali stili di vita devono essere alternativi e disturbanti, diversamente dall’attuale stile di vita del “riciclo”, il quale non è per nulla disturbante ma, al contrario, compatibile con il modello consumista.

Questa trasformazione, volta a creare una rottura, differirà da un paese all’altro, da una comunità all’altra, persino da una generazione all’altra. Il movimento necessita di essere riconosciuto e accettato come veicolo per arrivarvi, come luogo in cui le persone possano esprimersi attraverso le proprie azioni e ricevere apprezzamento dalla loro comunità per il lavoro svolto. Ciò le aiuterà a riscoprirsi all’interno della propria comunità e l’intera esperienza accelererà sia la loro trasformazione personale, sia quella della comunità. Entrambe dovrebbero essere seguite da una trasformazione politica, la quale dovrebbe creare terreno fertile per la soluzione del problema pratico della nostra sopravvivenza e di quella dei nostri compagni organismi, rimasti con noi su questo splendido pianeta.

Note: Malaparte, C. 1932. Coup d’état: The technique of revolution, trans. Sylvia Saunders. New York: Dutton. http://home.alphalink.com.au/~radnat/malaparte/index.html.

Il testo è disponibile in lingua inglese al link http://ecosocialisthorizons.com/2013/06/the-movement-of-homo-sapiens-against-homo-sapiens-to-save-homo-sapiens/

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