È del 22 Agosto la notizia che l’umanità ha consumato tutte le risorse che il pianeta è in grado di produrre nell’arco di un anno. È l’Earth Overshoot Day 2020. Quest’anno, a causa del lockdown e della conseguente crisi economica, ha ritardato di circa un mese (l’anno scorso cadde il 29 Luglio), comportando anche una riduzione dell’impronta ecologica della società umana di circa il 9,3%.
Ma se questo ritardo può essere considerato un progresso, osservare la questione da un’altra prospettiva fa apparire il tutto meno ottimistico; infatti, nonostante il momentaneo rallentamento della produzione, la società umana ha comunque impiegato quasi nove mesi per consumare un quantitativo di risorse che avrebbe dovuto centellinare e farsi bastare per dodici. Insomma, la classica questione del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, se non fosse che quello mezzo vuoto ci avverte che tra non molto moriremo di sete.
Già, perché il debito che la società contrae ogni anno con la natura si sta velocemente accumulando, tant’è che tra poco sarà praticamente impossibile estinguerlo – in caso già non lo sia -. L’esaurimento di risorse con sempre maggior anticipo – nel 1970 l’Earth Overshoot Day cadeva in Dicembre – comporta una continua e spasmodica ricerca di fonti sfruttabili per continuare a garantire i medesimi standard produttivi. Ciò non può non avere delle conseguenze da un punto di vista ecologico, con intere zone del pianeta sottoposte a sfruttamento intensivo al fine di mantenere inalterati i profitti dei grossi monopoli impegnati nell’estrazione e nella trasformazione di materie prime.
Gli effetti catastrofici del perseguimento di un tale modello cominciano a essere sotto gli occhi di tutti. È proprio di qualche giorno fa la notizia che lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia ha raggiunto un punto di non ritorno ovvero è destinata a sparire indipendentemente dalle soluzioni “miracolose” che la comunità internazionale escogiterà per porre un freno al surriscaldamento globale. Lo scioglimento dei ghiacciai è un tema da tempo trattato dagli scienziati, malgrado l’attenzione del pubblico e delle istituzioni governative non rispecchi la gravità del problema.
L’innalzamento del livello del mare comporterà la scomparsa di isole e zone costiere di molti paesi; nel 2019, solo lo scioglimento della calotta groenlandese ha comportato un aumento del livello del mare di 2,2 millimetri in appena due mesi ed è stato calcolato che, entro la fine del secolo, con gli attuali tassi di scioglimento, potrebbe innalzarlo fino a quasi dieci centimetri. Ma non è soltanto l’innalzamento del livello del mare a doverci preoccupare. lo scioglimento dei ghiacciai può scatenare la diffusione di virus antichi rimasti intrappolati nel ghiaccio, evento per il quale il nostro organismo, quello di milioni di specie animali e vegetali e di interi ecosistemi non sarebbero affatto preparati.
Le ripercussioni dell’innalzamento delle temperature globali e degli eventi associati a esso sono innumerevoli. Una su tutte è l’estinzione in massa di specie animali e vegetali. Un rapporto del 2019 della Nazioni Unite evidenzia come
Tra le specie maggiormente a rischio ci sono quelle di insetti, che stanno galoppando verso l’estinzione a ritmo inquantificabile. La presenza di essi negli ecosistemi è fondamentale per la stabilità di questi ultimi, nonché per il mantenimento della biodiversità, così come è fondamentale per la produzione di cibo. A tal proposito, malgrado, come detto, non esistano dati precisi in merito, è stato desunto che circa una specie su dieci di api e farfalle (gli insetti impollinatori più diffusi in Europa) è a rischio estinzione.
La gravità della questione è pienamente percepibile soltanto se si considera il fatto che
il 78% delle specie di fiori selvatici e l’84% delle specie coltivate in UE dipende almeno in parte dagli insetti per la produzione di semi.
Come possono essere nutriti gli abitanti di un pianeta se il fattore cruciale che determina la riproduzione della vita animale e vegetale scompare? Come possono essere nutriti, d’altro canto, gli abitanti di un pianeta se la stessa industria agroalimentare rappresenta una delle cause principali della distruzione di biodiversità, dello sfruttamento intensivo di terre e risorse e della produzione di gas serra coinvolti nei processi di innalzamento delle temperature globali?
L’agribusiness è infatti tra le prime cause di inquinamento, con la zootecnia che, oltre a uccidere e sfruttare oltre ogni misura circa sessanta miliardi di animali non umani ogni anno – nel conto sono calcolati solo gli animali di terra – impiega il maggior quantitativo di risorse e produce ingenti quantità di gas serra. L’Agenzia Europea dell’Ambiente ci ricorda, infatti, che
Lo sfruttamento di terre e animali, oltre che da una prospettiva morale, non è più sostenibile da un punto di vista di economia delle risorse, in particolar modo nel momento in cui i cosiddetti paesi in via di sviluppo, registrando un innalzamento del tenore di vita generale, adottano modelli di consumo alimentare simili a quello distruttivo occidentale.
E proprio l’Occidente, sempre fiero di rivendicare la propria ricchezza e il suo livello di “civilizzazione”, sarà tra quelli che andranno incontro a fenomeni correlati al cambiamento climatico ossia a migrazioni colossali causate del mutamento delle temperature e dalla conseguente desertificazione di intere aree del pianeta. Alcuni studi parlano di circa 200 milioni di persone che partiranno per recarsi in regioni del mondo maggiormente ospitali. Fenomeno, questo, che è comunque già in atto, come sostiene uno studio di OXFAM del 2017, secondo il quale, tra il 2008 e il 2016, già 22 milioni di persone all’anno sono state costrette ad abbandonare le loro case a causa dei cambiamenti climatici.
Ciò rappresenterebbe una bomba sociale di proporzioni gigantesche, con una corsa all’accaparramento di risorse sempre più scarse con cui sfamare una popolazione in continua crescita – e in un caso simile non risulta difficile immaginare la creazione di due poli opposti: chi detiene le risorse e può sfamarsi e chi muore di fame -.
In virtù di tutto ciò, una domanda sorge spontanea, una domanda che non è la prima volta che siamo costretti a porci: che fare?
Se Lenin, nel suo “Che fare?“, ebbe buon gioco nel delineare una strategia di organizzazione del proletariato, una strategia che, condivisibile o meno, era dettata dalle contingenze storiche, nel nostro caso la questione è assai più complessa. Le condizioni storiche della Russia del primo Novecento non sono le stesse di una società globalizzata come la nostra, in cui i problemi assumono maggior gravità anche soltanto per una questione di scala, con sempre più protagonisti e relazioni coinvolte. Per di più, la questione ecologica, nel suo essere a tutti gli effetti un problema globale, contribuisce a spazzar via l’ipotesi di adottare soluzioni vecchie e datate, soluzioni ancora legate a una struttura sociale oramai quasi sorpassata.
Proprio qui sta il punto: cosa inventarci per contrastare quello che tutte le proiezioni scientifiche, dalle più ottimistiche alle più catastrofiche, delineano come una vera e propria tragedia? Quali misure adottare per far sì che il problema sia preso di petto in tempo, per quanto tutti i dati suggeriscano che siamo, probabilmente, già fuori tempo massimo? Siamo, infine, davvero sicuri che i processi della democrazia parlamentare siano adeguati per una situazione di tale portata?
A tal proposito, facciamo un piccolo esperimento mentale. Ammettiamo che, di punto in bianco, si diffonda una coscienza ecologista e anticapitalista tra la popolazione. Ammettiamo che questa coscienza si traduca ben presto nella costituzione di un partito con idee chiare e intenzioni serie, deciso a raccogliere il numero di firme necessario per presentarsi alle prossime elezioni. Ammettiamo che riesca a raggiungere quel numero e, quindi, a concorrere con gli altri partiti alla prima tornata elettorale disponibile.
Già a questo punto le difficoltà non sarebbero poche. Una formazione politica appena nata, con un programma radicale certamente malvisto dall’establishment politico e mediatico, incontrerebbe non poche difficoltà nel rapportarsi alla popolazione attraverso i canali di massa; in più, le risorse economiche da destinare alla campagna elettorale non avrebbero chance di competere con quelle messe in campo dai partiti istituzionali. Ciò indica, con molta probabilità, che i primi tentativi di entrare in parlamento per via elettorale non darebbero i risultati sperati, lasciando spazio alla convinzione diffusa di dover dedicarsi a un progetto sui territori che miri ad accrescere, nel tempo, la base elettorale del partito. Già quel “nel tempo” risulta incompatibile con l’urgenza che siamo chiamati ad affrontare.
Ma ammettiamo, invece, che questo partito riesca a superare la soglia di sbarramento e a entrare in parlamento per la porta principale. Anche qui, non potendo pretendere di avere immediatamente un peso politico significativo, bisognerà dedicare del tempo affinché le proprie istanze arrivino all’attenzione dell’arena politica, affinché si stabiliscano alleanze – stabilire alleanze, spesso, significa momentaneamente metter da parte alcune istante per favorire l’emersione di altre o, semplicemente, acquisire peso politico – e, infine, affinché ci si strutturi come forza parlamentare in grado di sostenere adeguatamente la pressione e la lotta politica.
Tutto ciò, prima di tradursi in misure legislative compiute ed efficaci, deve passare per gli iter democratici del dibattito alle camere e, quindi, per lo scontro con altre forze intenzionate a non far passare quelle determinate riforme, cosa che, ovviamente, comporta l’impiego di altro tempo, a volte di anni, anni che, come detto, non abbiamo.
Ma proviamo ad essere esageratamente ottimisti. Il nostro partito, nel giro di poco tempo, ottiene tutte le vittorie che si era proposto. Il prossimo step, adesso, è rapportarsi con le istituzioni sovranazionali per provare a dare un’impronta globale a quelle riforme già approvate nel proprio paese. Un partito di tale rilevanza politica in patria non avrebbe certo difficoltà a entrare in coalizioni già formate a livello internazionale, cosa che, però, lo porrebbe di fronte agli stessi problemi affrontati in casa propria, con l’affaire alleanze da sbrogliare fin da subito per dare una chiara impronta all’agire della coalizione – alleanze che, comunque, dovrebbe stringere con partiti che, fino a quel momento, non si sono mostrati molto propensi a fare qualcosa per risolvere la situazione climatica -. Per di più, gli ostacoli che incontrerebbe in sede di scontro con altre forze politiche sarebbero presumibilmente più grandi: i grossi capitali transnazionali impegnati nella creazione di profitto tramite pratiche ecocide sono ovviamente agganciati a forze politiche internazionali che ne difendono gli interessi. In un tale contesto risulta ovvio che le possibilità di applicazione del proprio programma radicale sarebbero più ridotte. O, perlomeno, lo sarebbero nel breve tempo, tempo che, ripetiamo, non c’è.
Tiriamo le somme. Dal momento della diffusione di una coscienza ecologista e anticapitalista tra la popolazione all’attuazione di riforme radicali internazionali figlie di quella nuova consapevolezza deve necessariamente passare del tempo. La quantità di mesi o anni necessari affinché ciò accada dipende da un’infinità di fattori; nel nostro esempio, abbiamo provato a delineare un panorama roseo, in cui le cose vanno al posto giusto sin da subito, un panorama, però, decisamente irrealistico.
A tal proposito è lecito porsi nuovamente la domanda: che fare? Che fare, dato che gli strumenti a nostra disposizione sono inadeguati, dato che le forze con cui è necessario scontrarsi non hanno mai avuto tanto potere, dato che anche solo la prospettiva del nostro esperimento mentale, per quanto lenta, è una prospettiva, ad oggi, irrealistica? Lenin, a questa domanda, aveva una risposta, per quanto criticabile. Noi, al momento, neanche questo.