L’omicidio di George Floyd ha scatenato una retorica che si ripresenta ogniqualvolta vengono alla luce abusi e omicidi da parte delle forze dell’ordine: la retorica delle mele marce.
Poniamo che una donna sulla cinquantina perda improvvisamente il proprio impiego. Poniamo che abbia due figli, che sia separata e che gli assegni di mantenimento che l’ex marito le manda non riescano a coprire neanche le spese dell’affitto. Poniamo che il suo padrone di casa, venuto a conoscenza del suo nuovo stato di disoccupazione e imminente indigenza, le mandi un avviso di sfratto – insomma, gli è costato tanti soldi rimettere a posto quel monolocale, non può certo rischiare di non avere entrate da quell’investimento tanto sudato -. Poniamo che la donna, del tutto sola e senza alcun sostegno familiare, tenti comunque di non arrendersi e inizi a cercare un nuovo impiego, pur consapevole che alla sua età le possibilità di essere assunta rasentano lo zero; ci sono i libri di scuola dei bambini, la rata della mensa, l’assicurazione della macchina e l’avvocato da pagare. Poniamo che, visto lo scarso successo del suo pur lodevole impegno, riceva un secondo avviso di sfratto e che la data fissata per lasciare il monolocale sia sempre più vicina.
Poniamo che quella data arrivi e lei non sia riuscita in alcun modo a trovare una pur minima fonte di reddito attraverso cui rivendicare il suo “diritto” di affittuaria. Alle otto di mattina si affaccia all’unica finestra della casa e vede un corteo di camionette della polizia, alcune pattuglie di vigili urbani, mandate in caso qualche solidale con la donna ostacoli le operazioni di sfratto, e dei passanti perplessi e incuriositi dalla situazione insolita. Tempo qualche minuto e dalle camionette escono decine di poliziotti in tenuta antisommossa, con tanto di casco, scudo e manganello, diretti al portone della sua palazzina. In testa al corteo, quello che sembra un agente in borghese; in mano ha una ricetrasmittente da cui esce un suono gracchiante.
Il portone della palazzina è aperto e qualche secondo dopo si sente bussare alla porta. La donna non risponde, anzi, silenziosamente sposta un piccolo armadio posto nel suo ingresso\soggiorno\camera da letto davanti la porta di casa, in modo da ostacolare una probabile irruzione. I colpi alla porta si fanno più insistenti, mentre dal vociare sul pianerottolo si intuisce che la palazzina è oramai invasa da caschi e manganelli. L’agente in borghese, con voce spazientita, intima alla donna di aprire la porta altrimenti sarà costretto a farla buttare giù dai suoi uomini. La donna prova a resistere, tiene stretti i suoi figli e aspetta.
Inutile raccontare come andrà a finire.
Questa è soltanto una delle innumerevoli situazioni che si verificano quotidianamente nel nostro paese – e non solo -. Il nostro intento, però, non è tanto quello di gettare luce sulla pur impellente questione abitativa, quanto quello di provare a ricostruire la lunga catena di responsabilità e azioni che, come nel nostro esempio, può gettare una donna e i suoi figli in mezzo a una strada.
Riflessioni incentrate sulle singole azioni degli attori in gioco rischiano di semplificare una questione assai più complessa. Ad esempio: in quale grado è responsabile del dramma della donna l’agente antisommossa che sfonda la porta di casa dietro ordine del superiore? È chiaro che un ragionamento simile porta con sé delle conseguenze. Tra queste c’è la necessità di quantificare il grado di colpa del singolo mettendo la sua azione in relazione a quella degli altri attori in gioco. È vero che il singolo agente ha sfondato la porta, permettendo agli altri di entrare e procedere con l’operazione di sfratto, eppure in che percentuale è responsabile il superiore che ha dato l’ordine? In che percentuale è colpevole il questore che ha firmato l’ordine di sfratto? E gli altri agenti in tenuta antisommossa che hanno fatto irruzione non appena si sono visti la porta spalancata? Per non parlare, per assurdo, del semplice impiegato che ha trasmesso l’ordine di sfratto da un ufficio all’altro, rendendolo in tal modo operativo.
Siamo davvero in grado di stabilire chi è più colpevole di un altro in questa vicenda? L’azione più visibile, ossia l’irruzione in casa della donna, è certo quella più facilmente riconoscibile e gli esecutori i responsabili maggiormente in luce. Tale prospettiva, però, ci fa perdere subito di vista l’intero apparato poliziesco che opera e si cela dietro una singola operazione di sfratto, una macchina gigantesca e perfettamente oliata al servizio della legge.
Qui, però, sta il punto: cos’è la legge? Senza troppi giri di parole, potremmo definirla come nient’altro che l’emanazione della volontà di un potere centrale, nel nostro caso lo Stato. Viene da chiedersi, però, che tipo di società gestisca questo Stato. La risposta è scontata: una società profondamente spaccata. Prendiamo il caso italiano.
Questi dati fotografano chiaramente che in Italia, come nel resto del mondo, esiste un conflitto di classe: pochi ricchi detengono la quasi totalità della ricchezza, lasciando agli altri le briciole. Uno squilibrio simile può continuare ad esistere solo a patto che un potere centralizzato garantisca il normale funzionamento dei meccanismi che producono e distribuiscono la ricchezza in maniera diseguale. La società capitalistica si serve dello Stato per garantirsi la sopravvivenza; lo Stato, da parte sua, impiega tutta la sua forza affinché ciò avvenga. Cosa altro può rappresentare la forza dello Stato se non la minaccia di un intervento violento per ristabilire un ordine momentaneamente traballante?
La donna barricatasi in casa per non cedere all’ordine di sfratto mette in discussione il principio stesso di proprietà, quel principio secondo cui non a tutti è concesso di avere un tetto sicuro sopra la testa, secondo cui c’è chi possiede più di una casa e chi non ne possiede alcuna. Quando il principio di proprietà è messo in pericolo, ecco che arriva lo Stato con la sua polizia.
Attraverso queste dinamiche si muovono le azioni dei singoli attori in campo; è chiaro, però, che esse non sono che la conseguenza di un assetto sociale classista e violento. Non ha pertanto alcun senso distinguere tra poliziotti buoni e cattivi. Nel momento in cui la polizia agisce, lo fa al servizio di un potere che è sempre orientato alla propria conservazione, al servizio di un ordine che privilegia i pochi a danno dei molti. Se esiste un’azione realmente morale che l’individuo può compiere è quella di non aderire sin dall’inizio a un apparato che fa della coercizione la sua vocazione – anche qui andrebbe fatto un ragionamento caso per caso: in quanti si arruolano per necessità? In quanti per affinità ideologiche con principi di ordine e disciplina? In quanti per spirito sadico (molti fatti di cronaca lasciano pensare anche a questo)? -. Diversamente, che si pattugli un quartiere, che si esegua una carica durante un corteo o che si renda operativo uno sfratto, si sta comunque agendo in supporto a un assetto socio-economico violento.
Qualcuno potrebbe obbiettare che le funzioni poliziesche non contemplano soltanto la difesa della proprietà ma anche la lotta allo spaccio, alla criminalità organizzata, alla violenza domestica, ecc… Simili obiezioni non fanno che testimoniare come, alla base, ci sia la considerazione del crimine come fatto esclusivamente individuale, non come prodotto sociale; simili obiezioni segnalano come sia ancora diffusa l’idea che il “criminale” non sia altro che un cattivone fin dalla nascita, non il risultato di condizioni materiali, culturali e intellettuali che è la società stessa, e quindi anche lo Stato, a perpetrare; simili obiezioni vorrebbero farci credere, ad esempio, che il fenomeno della violenza sulle donne sia completamente slegato dall’ordine patriarcale che la società capitalistica e lo Stato, con la loro struttura economica e le loro leggi, si impegnano a mantenere.
Il potere si pone come risolutore di situazioni che esso stesso ha contribuito a generare. È un cortocircuito logico.
Un uomo che decide di iniziare a spacciare a seguito della perdita dell’impiego dovuta al mancato rinnovo del contratto “per cessata esigenza produttiva”, viene arrestato. L’atto stesso dell’arresto, che comprende decine di scartoffie per le indagini, appostamenti, intercettazioni e, infine, le manette ai polsi, non è che la toppa che lo Stato mette a un problema di cui è responsabile. Se infatti esso non permettesse alle aziende di poter disporre liberamente della propria forza lavoro, magari attraverso riforme del lavoro volte a precarizzare ulteriormente l’esistenza di lavoratori e lavoratrici, ecco che un problema simile si verificherebbe molto più di rado.
Il poliziotto che, infine, mette le manette ai polsi dello “spacciatore”, e che riceve lodi dai superiori e dall’opinione pubblica per aver catturato un elemento pericoloso per la società, non sta forse contribuendo a mantenere un ordine in cui il crimine non è che l’ultima spiaggia per non morire di fame?
Non ha senso distinguere tra poliziotti buoni e cattivi. Il poliziotto, semplicemente, è la sua funzione ossia garantire che una società profondamente diseguale come la nostra rimanga esattamente così com’è.