Per molti, la Giornata internazionale della donna non è niente più che una ricorrenza tra le tante, una festa superflua che fa mettere da parte un bel gruzzoletto alla “lobby” dei fiorai, una scocciatura da tenere in seria considerazione per non litigare con la propria moglie o la propria compagna – spesso questo tipo di preoccupazioni alberga soltanto nella testa di uomini subdolamente misogini e maschilisti -.
Inutile dire che la giornata dell’8 Marzo è molto di più.
Malgrado la confusione che oramai da decenni si aggira intorno alla scelta di questa data, le sue origini sono ben chiare. Come ci ricorda Bhaskar Sunkara nel suo Manifesto socialista per il XXI secolo:
“Il 23 Febbraio [1917] del calendario giuliano – ossia l’8 Marzo del calendario gregoriano, la giornata internazionale delle donne – le operaie di una fabbrica tessile [di San Pietroburgo] lanciarono uno sciopero che si diffuse in tutta la città. Alla fine della giornata, 91mila operai e operaie avevano partecipato alla mobilitazione. Il giorno dopo erano 200mila“
L’8 Marzo ha, pertanto, un valore fortemente politico in quanto fa tornare alla memoria la scintilla da cui trassero origine gli eventi che portarono alla caduta, dopo secoli di dominio, della dinastia Romanov in Russia, una scintilla che, evidentemente, è donna.
Sarà forse per questo che non cessano di circolare voci false sulle origini di questa ricorrenza, come quella che vorrebbe l’8 Marzo come una sorta di “Giornata della memoria al femminile”, in cui ci si impegna a ricordare le centinaia di operaie morte nell’incendio di una, in realtà, inesistente fabbrica di camicie Cotton a New York.
La natura profondamente simbolica di questa data fa traballare un ordine patriarcale costantemente impegnato a delineare un soggetto storico attivo dai connotati esclusivamente maschili. Ad esser triste è che, anche quando la narrazione proviene da sinistra, le donne sono spesso relegate ai margini. Le reali origini dell’8 Marzo stanno proprio a ricordare come le donne, in realtà, siano un soggetto storico più che mai presente e coinvolto in eventi che hanno plasmato la storia con la “S” maiuscola.
Detto questo, l’8 Marzo riveste un’importanza particolare non solo per un fatto di memoria storica; esso porta sotto la lente d’ingrandimento la violenza strutturale che la società intera esercita contro chi non ha avuto la “fortuna” di nascere con un’appendice tra le gambe. Questa violenza assume diverse sembianze pur rimanendo un fenomeno unitario.
Vi è, anzitutto, la violenza di tipo fisico. L’Istat ci dice che, in Italia, circa il 31% delle donne tra i sedici e i settant’anni (più di sei milioni e mezzo di donne) ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nell’arco della propria vita. In sostanza, una donna su tre. Nel 2018, queste violenze hanno condotto alla morte ben 142 donne, il dato più alto mai registrato nel nostro paese.
Correlata alla violenza di tipo fisico vi è, poi, la violenza di tipo psicologico. Sempre l’Istat ci ricorda che circa il 26,4% delle donne subisce violenza psicologica ossia “comportamenti di umiliazione, svalorizzazione, controllo ed intimidazione”.
Se questo tipo di violenza è qualcosa che, spesso, supporta la violenza fisica vera e propria, vi è un’ulteriore forma di violenza psicologica, una forma che potremmo senza timore definire culturale. L’idea di “donna”, costruita e riprodotta attraverso i secoli, confina le appartenenti al genere femminile in determinati “recinti” emotivi, fisici, lavorativi e sociali. Pertanto, chiunque tra esse provasse a evaderne, sconfinando in territori “non-femminili”, ecco che troverebbe di fronte a sé la minaccia dell’esclusione da un bacino di accettabilità sociale. Per fare un esempio, una donna che decidesse di non procreare andrebbe controcorrente rispetto al “destino biologico” che la società patriarcale, fin dalla più tenera età, tenta di imporle. È quindi molto più semplice accettare gli orizzonti di vita che qualcuno ha già stabilito, piuttosto che tentare di intraprendere strade meno battute.
Non è questa, forse, una forma di violenza psicologica? Non è questo, forse, l’esercizio di una forza ben strutturata contro le aspirazioni di un intero gruppo sociale per una vita radicalmente differente?
È chiaro che, per far sì che l’esercizio di questa violenza ottenga i risultati sperati, c’è bisogno di strutture che la normalizzino, che la rendano quotidiana, quasi impercettibile. Per far questo, è necessario mantenere in uno stato di mancata autonomia il gruppo sociale che si intende dominare.
La Commissione Europea, una di quelle strutture che, al di là di facili dichiarazioni, non è poi così impegnata a far sì che le cose cambino, ha redatto, nel 2017, un documento sul divario retributivo di genere ovvero sul gap salariale esistente tra uomini e donne. Ebbene, il documento evidenzia come il divario retributivo di genere in Italia sia del 43,7%, del 39,3% in Europa. In poche parole, una donna, in un anno, è pagata poco più della metà di quanto è pagato un uomo nello stesso arco di tempo.
Come spiega il documento, questa stima viene estrapolata tenendo conto di tre fattori svantaggiosi a cui le donne vanno regolarmente incontro: retribuzione oraria inferiore; meno ore di lavoro retribuito; minore tasso di occupazione.
I motivi dell’esistenza di questi ostacoli sono diversi. Su tutti spiccano quelli legati allo svolgimento di lavori non retribuiti (un uomo dedica alla cura dei figli e dei familiari circa 9 ore a settimana mentre una donna ne dedica 22 ovvero più del doppio), all’esistenza di periodi trascorsi fuori dal mercato del lavoro (maternità, ecc…) e di una vera e propria discriminazione retributiva che, seppur vietata, continua a proliferare.
Sono elementi, questi, che contribuiscono a chiudere il cerchio della violenza perpetrata nei confronti delle donne. Oltre alla violenza fisica e psicologica, c’è una forma di violenza probabilmente più antica e sotterranea: la violenza economica.
Che, quindi, si mettano da parte le mimose. L’8 Marzo è un giorno di lotta, non di festa.