Il dolore è politico

Di mestiere faccio il portantino. Lavorando in ospedale, le situazioni in cui mi imbatto sono le più diverse: persone malate da tempo che entrano ed escono dagli ospedali; bambini con patologie congenite che ancora non hanno mai messo il naso fuori dal proprio reparto – e chissà se mai lo faranno! -; malati terminali; pazienti ricoverati per una sciocchezza le cui condizioni si sono progressivamente aggravate; persone intubate tenute in stato vegetativo; individui cosiddetti “psichiatrici” – che termine orrendo! – legati a mani e piedi; decessi.

Il minimo comune denominatore che attraversa queste differenti situazioni non può che essere uno solo: il dolore.

Semplificando, potremmo dire che esso si manifesta in tre modalità diverse, alle quali corrispondono altrettanti agenti: c’è, in primis, il dolore del malato, esperito in prima persona da chi è affetto da una determinata patologia o condizione; c’è, poi, il dolore del conoscente, vissuto da chi è vicino al soggetto malato (parenti, amici, ecc…); infine, c’è il dolore dello sconosciuto ossia di tutte e tutti coloro che, in gradi diversi, si imbattono nel malato: medici, infermieri, portantini, addetti delle pulizie e delle cucine, altri pazienti, parenti di altri pazienti, ecc…

Se i primi due tipi di dolore sono quelli a cui più spesso si pensa quando si affronta l’argomento, il terzo non ha certamente meno importanza.

Il coinvolgimento emotivo nella morte o nella malattia di qualcun altro non sarà mai quello di chi, direttamente (malato) o indirettamente (parenti e amici), lo vive sulla propria pelle, eppure il suo grado di legittimità non è da considerarsi di molto inferiore. Per di più, esso appartiene alle condizioni che creano il contesto in cui il dolore del malato e del conoscente andranno a manifestarsi. Per farla breve: che clima verrebbe a crearsi se, all’interno di un reparto, ognuno si rinchiudesse nel proprio dolore, senza lasciare spiragli per una relazione col dolore altrui?

Fortunatamente la realtà è un’altra.

Sono molti i casi di pazienti che, una volta terminato il periodo di degenza in ospedale, hanno instaurato un rapporto al di fuori delle mura del reparto. Sono anche molti i casi di parenti di pazienti ricoverati che, nella prolungata condizione di dolore dei congiunti, hanno creato la possibilità di un’amicizia solida al di là della degenza dei propri cari. Non è raro che ciò si verifichi anche in casi in cui la malattia di un parente si concluda con la morte; in questi casi, se possibile, il legame che viene stretto è potenzialmente ancor più forte, essendosi generato in un momento particolarmente tragico della propria vita.

Può sembrare assurdo ma più è grande il dolore per la malattia o per la morte di un proprio caro, più sembra alzarsi la possibilità di instaurare un rapporto positivo con chi, a livello spaziale e temporale, si trova a condividere una forte precarietà emotiva.

È certamente vero che le probabilità che si verifichi l’esatto opposto sono elevate – ad esempio, il rifiuto categorico di rivedere o anche solo ricordare qualcuno con cui si è percorso un momento particolarmente doloroso della propria vita -, eppure, anche soltanto l’esistenza di questi (comunque tanti) casi di rapporto interpersonale coltivato in condizioni di precarietà emotiva, ci mette davanti a una verità facilmente dimostrabile: il dolore è intimamente politico.

Col termine “politico” non ci si sta ovviamente riferendo a qualcosa che abbia a che fare con parlamenti o elezioni. “Politico”, in questo caso, è inteso nel senso più primitivo del termine ossia di relazione all’interno di uno spazio circoscritto, nel nostro esempio l’ospedale.

Molti filosofi, a partire da Michel Foucault, hanno definito l’ospedale come luogo in cui il potere medico è esercitato invadendo ogni aspetto della quotidianità (dalla contenzione, e quindi dalla possibilità di movimento dei degenti, all’architettura e alla disposizione spaziale dei reparti di degenza); sempre Foucault, però, ha anche detto che, laddove c’è l’esercizio di un potere, esiste anche l’esercizio di una forma di resistenza ad esso.

Nell’esempio in questione, la resistenza non è soltanto volta a scontrarsi con una quotidianità spesso abbruttente dei meccanismi ospedalieri – quanti casi si registrano di denunce da parte di pazienti (o di loro parenti) per le condizioni in cui vengono tenuti o per il modo in cui vengono trattati? -, ma è anche orientata a mostrare, involontariamente, la possibilità di un modo assolutamente differente di relazionarsi in condizioni di precarietà.

Possiamo considerare l’ospedale come il paradigma di una società costantemente lanciata verso una precarietà esistenziale e materiale diffusa.

In poche parole, l’ospedale è la riproduzione, su scala ridotta, della società in cui viviamo: c’è una gerarchia ben definita, una catena di comando (e di potere) che va dal primario fino all’ultimo dei portantini; delle forme di resistenza organizzata come i sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici, che si propongono di lottare per condizioni lavorative migliori; infine, ci sono forme di resistenza e aggregazione spontanee più o meno informali, fondate sulla permanenza comune in una condizione di dolore (diretto o indiretto che sia), forme di resistenza la cui esistenza testimonia la possibilità assolutamente reale che l’umano non sia, dopotutto, quell’essere tremendo votato a un egoismo narcisistico.

Sono forse queste ultime a darci maggiore speranza per il futuro.

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