Se il mezzo comunicativo della scrittura lo permettesse, questa recensione si aprirebbe con dei fantozziani novantadue minuti di applausi. Già, perché a guadagnarsi l’appellativo di “cagata pazzesca”, anziché il famigerato film “La corazzata Potëmkin” – in lingua cecoslovacca ma con i sottotitoli in tedesco -, è l’opera dello storico Ernesto Galli della Loggia, sapientemente demolita da Christian Raimo nel suo Contro l’identità italiana, edito da Einaudi.
Lo storico romano non riesce a capacitarsi dell’assenza, nel corso dell’intera storia italiana, di un despota illuminato e di una vera destra conservatrice in grado di plasmare un’identità nazionale forte e duratura nel tempo. Per sopperire a questa “atroce mancanza”, altre due istituzioni avrebbero assunto, secondo lui, il ruolo di guida storica: la Chiesa e l’arma dei Carabinieri.
È a questo punto che dovrebbe partire l’acclamazione per Christian Raimo, così diretto nell’attaccare le tesi di Galli della Loggia da farle sembrare niente più che una sparata da bar di un novantenne rincoglionito al trentesimo bicchierino, un novantenne, a dire il vero, anche un po’ nostalgico.
Anzitutto, perché la riduzione a queste due sole istituzioni ne lascia da parte altre decisamente più influenti: “dalla scuola all’università al sistema dei media, almeno nel Novecento”. E poi, perché Chiesa e Carabinieri non hanno certo fatto i salti mortali, negli ultimi decenni, per farsi non dico amare ma, quantomeno, tollerare da quel pubblico più o meno lontano dai rigidi sentimenti di ordine, disciplina e tradizione tanto cari all’ideologia di destra. Se, per quanto riguarda la Chiesa, è un gioco da ragazzi delegittimarne l’autorità semplicemente osservando la diversa velocità con cui si approccia a temi che la società civile ha già da tempo iniziato a inglobare nel discorso pubblico da una prospettiva quantomeno di apertura (si pensi all’aborto, al riconoscimento delle famiglie e delle soggettività non eterosessuali, al ruolo della donna nella società, all’eutanasia, ecc…), per quanto riguarda l’arma dei Carabinieri basterebbe citare l’episodio che, più di tutti, ha delineato l’immagine di un’Italia non ancora realmente democratica: il G8 di Genova.
Scrive Raimo: “Se non avevo mai tenuto particolarmente alla mia identità nazionale, dopo Genova, ma possiamo dire anche dopo Napoli (il massacro di piazza Plebiscito di marzo 2001 che è il prequel di Genova) e dopo tutta l’esperienza del movimento no-global, non riesco proprio a capire il senso (civile? politico?) del recupero del patriottismo”. Con “recupero del patriottismo” l’autore si riferisce all’operazione dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, operazione volta a “recuperare l’idea di patria, ad alimentare un nazionalismo che unisca una consapevolezza costituzionale e un’identità unitaria della nazione, forte, sicura, ma – attenzione – non fascista; e a inserire questa prospettiva nella nascente dimensione europea”. Un tentativo, questo, ingenuo a tal punto da far venire voglia di dare un buffetto sulla guancia di Carlo Azeglio e di dirgli: “Carlè, ma veramente credevi fosse possibile?”.
Sì, perchè a rendere inattuabile un’operazione simile è l’assunto, oramai confermato anche da analisi di laboratorio e sul quale Raimo costruisce l’impalcatura teorica del suo testo, secondo cui “l’italiano, se si sente italiano, diventa subito fascista”.
Proviamo a pensare al modo in cui destra e sinistra hanno reagito al recente omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. La retorica del “servitore dello Stato italiano” ha reso sostanzialmente indistinguibili le due parti politiche, mostrando come la sinistra sia oramai orfana di un perno ideologico chiaro, un perno che ne dovrebbe costituire la più intima essenza: la coscienza del fatto che lo Stato non è altro che un’incrostazione storica di determinati rapporti di classe e che, pertanto, qualsiasi forma di idolatria nei confronti di esso o di chiunque ne preservi l’integrità (in questo caso, le forze dell’ordine) dovrebbe quantomeno apparire sospetta.
Mai verità, quindi, fu più oggettiva, come oggettivo è il fatto che questa identità è un’identità “piagnona”, sempre alla ricerca di una rivalsa nei confronti di un Altro non meglio specificato ma che avrebbe sfruttato l’Italia per il proprio tornaconto – pensiamo al sentimento diffuso nei confronti dell’Unione Europea, criticabilissima per il modo in cui si è strutturata ma, spesso, capro espiatorio di ogni sventura italica -, che avrebbe reso il suo popolo un popolo di “calpesti e derisi”, come – guarda caso! – recita l’inno di Mameli.
Un’identità che non si fa mancare neanche una sana dose di maschilismo, facilmente rintracciabile, tra le altre cose, nella scarsissima considerazione della produzione letteraria delle donne, una produzione sconfinata eppure quasi ignorata.
Ma perché considerare la letteratura una sorta di cartina di tornasole dell’identità italiana? Perché “più ci raccontiamo in un certo modo, meno saremo incoraggiati a immaginarci la possibilità di essere – e quindi di agire – diversamente”. La letteratura inventa mondi, ridisegna da zero quelli già esistenti, plasma la realtà come nient’altro; ecco perché chi si diletta nell’esercitarne l’arte da una condizione di subordinazione (nel caso in questione, le donne) è bene che rimanga ai margini, defilato, reso impotente e sterile. La letteratura ha una tremenda funzione performativa: una banale frase non si limita a descrivere o raccontare un fatto, sia esso realmente accaduto o di fantasia; essa produce crepe nella realtà, creando le condizioni affinché le trame del mondo vengano costantemente ridefinite. E un’identità solida non può certo tendere alla sua auto-ridefinizione, pena un irrimediabile snaturarsi. Ecco, perciò, la necessità di una decostruzione radicale.
I processi decostruttivi sono, oramai, un’abitué della ricerca filosofica contemporanea, ogni cosa può e deve ricadere sotto lo sguardo vigile del filosofo o della filosofa che, sulla scia di Heidegger, Derrida e compagnia cantante, si prefiggono l’obbiettivo di svelare i vuoti, i lati oscuri, i silenzi e gli assensi del nostro parlare – la decostruzione, attraverso l’opera di Massimo Filippi, è arrivata anche a demolire la stessa idea di “specie” come campo nettamente separabile del vivente, riconfigurandola come dispositivo discorsivo di potere capace di animalizzare intere frange di popolazione umana, rese in questo modo “degne” dello stesso atroce trattamento riservato agli animali non umani -. E Raimo non perde certamente tempo ad accodarsi a questo filone quando afferma che “oggi non si può discutere di identità italiana senza misurarsi con una aggiornata bibliografia femminista, postcolonialista, meridionalista, almeno che ci porti a una decostruzione delle produzioni identitarie legate ai meccanismi di potere” e che riveli alla luce del sole lo “status ontologico debole dell’identità”.
Nell’ultimo capitolo l’autore si domanda: “Ci può essere un nazionalismo che non si adulteri in neoidentitarismo, e quindi che non dia alimento a sopraffazioni e razzismi?”. La risposta è no e il motivo è molto semplice: il nazionalismo, ovvero l’identità nazionale, è un dispositivo escludente che costruisce una coscienza collettiva sulla base di una non identificazione con l’Altr*. Cosa accadrebbe se, con l’intento di costruire una nuova identità plurale e lontana da qualsiasi spirito di sopraffazione, si accogliessero le testimonianze di quell’Altr* rinchius* nei centri di identificazione ed espulsione, di quell’Altr* a cui le viscere incattivite del “popolo” vorrebbero negare l’assegnazione legittima di una casa popolare, di quell’Altr* che, pien* di speranze e con enormi tragedie alle spalle, giunge in Italia e si trova incastrat* nel labirinto della prostituzione e dello spaccio? Accadrebbe che l’identità italiana andrebbe in frantumi, non potendo tollerare ciò che non è identico a sé; dove c’è identità c’è sempre il “diverso”.
Ecco perché non si può che essere contro l’identità, contro quell’istituzione monolitica che è il motore primo degli attuali e patologici rapporti di potere (del bianco con il nero, dell’uomo con la donna, dell’eterosessuale col non eterosessuale, dell’umano col non umano), contro quella narrazione che cede più al mito che alla storia, contro quel dispositivo escludente e marginalizzante che taglia e ricuce a piacimento di chi detiene il controllo.
E se è vero che il mondo si rigenera continuamente su base dialettica, allora da questi assunti contro l’identità non può che sorgere un interrogativo, un interrogativo che Raimo piazza nella penultima pagina del testo, un interrogativo che si propone di riecheggiare con forza nella scatola cranica di questa umanità incerottata e che, involontariamente, può estendere il discorso alla crisi climatica incombente e al nostro rapporto con ciò che non è umano: “Se la dimensione originaria non fosse quella identitaria, ma al contrario quella della coesistenza?”.

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Non vedo perchè non estendere la critica all’identità nazionale alle identità di classe,di genere,individuali e quindi in definitiva all’identità dell’Altro(a). Un po’ difficile però allora parlare di soggetto di diritto,di rispetto nella coesistenza. A meno che l’identità sia altrui e negata per sè. Perchè solo per l’italiano si converte in fascismo. L’autosoppressione degli italiani come antifascismo militante?
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Nel libro è chiarito molto bene questo passaggio, consiglio vivamente la lettura
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