Intensivo o non intensivo, questo è il dilemma

Il 15 Giugno, a Roma, un corteo attraverserà le strade del centro per portare l’attenzione sugli imminenti disastri che il cambiamento climatico sta per provocare (o che ha già provocato). Il nome scelto per l’evento è Marcia per il clima e contro gli allevamenti intensivi. Già, perché non tutti sanno che una sostanziosa dose di gas serra è prodotta dagli allevamenti intensivi, per non parlare dei danni che questa pratica provoca in termini di deforestazione, inquinamento delle acque, erosione del suolo, ecc… (per approfondire il tema rimandiamo al nostro Le cause del cambiamento climatico)

Molto spesso la tematica ambientale è derubricata a mero interesse per spiriti virtuosi. Insomma, non tutti hanno tempo e modo di smistare in sacchi differenti i rifiuti domestici, né le possibilità economiche di acquistare un alimento biologico il cui ciclo produttivo inquina meno di quello non biologico che, però, costa la metà, né, ancora, la salute e la freschezza per raggiungere l’altro capo della città in bicicletta piuttosto che in automobile. Ecco, quindi, che al “futuro del pianeta” devono pensarci i più o meno benestanti ossia coloro che dispongono di abbastanza tempo, denaro e salute per ritagliarsi un angolino di giornata in cui adottare comportamenti moralmente ed ecologicamente congrui.

Ma se è comprensibile che una consistente fetta di popolazione, immersa com’è in un quotidiano spesso fatto di continue difficoltà, tenda a respingere il crescente interesse per una questione all’apparenza così lontana, meno comprensibile è il modo in cui coloro che hanno deciso di farsi carico delle istanze ecologiste trattano la questione. Nessun ragionamento politico, nessun ragionamento economico che tenti di presentare il dramma climatico che stiamo vivendo sotto una luce che non sia quella stucchevolmente moralistica del consumatore consapevole o della spesa etica – per inciso: nel capitalismo NON può esistere UN SOLO prodotto che sia totalmente etico -, nessuna lettura indirizzata alla comprensione e all’avvicinamento di quelle frange di popolazione occupate dall’immediata necessità di arrivare alla fine del mese. Niente di niente.

Ecco, perciò, l’accusa – in parte giustificata – di mettere al primo posto problemi i cui effetti sono, per buona parte, ancora di là da venire, che tradotto significa: “Ho capito che tra quindici o vent’anni ci sarà difficoltà a coltivare qualsiasi cosa e che i prezzi del cibo aumenteranno notevolmente perché gli alimenti saranno perlopiù importati e, perciò, disponibili soltanto per chi avrà le possibilità economiche per acquistarli. Ho capito. Ma io già oggi ho difficoltà a mangiare, non serve che aspetti altri vent’anni!”. Come dare torto a chi pone un’obiezione simile? E, dall’altra parte, come dare torto a chi invece, nonostante queste obiezioni, continua a sottolineare l’importanza vitale di fare qualcosa in termini di riduzione drastica delle emissioni, riconversione delle industrie a grande impatto ambientale, progressiva sostituzione delle fonti di energia da combustibili fossili con quelle da fonti rinnovabili?

In poche parole, come raccordare le esigenze del quotidiano di gran parte della cittadinanza con quelle dell’equilibrio ambientale? L’unica maniera per farlo è riportare la questione alla sua radice politica, rendendo chiaro che non riuscire a mangiare oggi per mancanza di mezzi economici e non riuscire a farlo tra vent’anni a causa dello stravolgimento climatico, sono due facce della stessa medaglia, una medaglia che non dobbiamo più aver paura di chiamare modo di produzione capitalistico.

L’iniqua distribuzione della ricchezza mondiale e la distruzione del pianeta vanno a braccetto, anzi, sono condizione l’una dell’altra. La possibilità di accumulare ricchezza in pochissime mani, lasciando agli altri le briciole, deriva direttamente dalla capacità (di pochi) di entrare in possesso di quelle risorse naturali necessarie per la produzione di un determinato prodotto. Insomma, chi ha abbastanza denaro per acquistare mille ettari di terreno, sui quali coltivare piantagioni di soia con cui nutrire gli “animali da allevamento”, sta valorizzando il proprio capitale attraverso lo sfruttamento di chi lavora per lui\lei e, allo stesso tempo, deforestando intere zone per far posto a una monocultura i cui effetti diretti sono l’impoverimento e l’erosione del suolo, oltre che la privazione di enormi quantità d’ossigeno che gli alberi naturalmente immettono nell’atmosfera e che contribuiscono a mantenere in equilibrio il clima. Stesso discorso può valere per l’estrazione di petrolio dalle profondità marine o di minerali e metalli dal cuore di una montagna. 

Queste pratiche, accanto alle quali se ne potrebbero elencare molte altre, hanno in comune una visione della natura come ininterrotta generatrice di profitto. Senza questa impostazione ideologica non sarebbe possibile fare quello che si è fatto e che si continua a fare.

Facciamo un esempio di come funziona questo meccanismo: una società che considera universalmente criminale la tratta degli schiavi condannerebbe senza mezzi termini pratiche che la prevedono; ma se questa stessa pratica fosse alla base di enormi entrate economiche in grado di garantire una certa stabilità a milioni di persone, ecco che, per venire incontro al bisogno che la società ha di vedersi come ente collettivo morale, senza, però, stravolgere i suoi rapporti interni, si escogiterebbe uno stratagemma “estetico” per continuare a fare quel che si fa evitando di compromettere la visione che la società ha di sé stessa. Insomma, una sorta di vestitino colorato e dalle trame floreali da apporre su un corpo in avanzato stato di decomposizione. Questo vestitino è, per l’appunto, l’ideologia.

La donna è naturalmente predisposta alla cura del focolare domestico e di chi lo abita quindi è normale e naturale che vi sia confinata; il negro delle piantagioni ha un cervello di dimensioni ridotte e non può elaborare un pensiero astratto quindi è giusto che lo si impieghi nei campi. L’ideologia è una giustificazione, una giustificazione che, col tempo, diventa a sua volta produttrice di nuove forme d’oppressione, sempre e comunque in linea con le esigenze di riproduzione materiale di una società con determinati rapporti di potere, in questo caso, rapporti di potere all’insegna del cresci o muori.

Eccoci, perciò, all’evento di Sabato 15 Giugno. Vi è, in questo caso, un tranello ideologico? E, se sì, dove? Ahinoi, direttamente nel titolo. L’aggettivo “intensivi” nasconde – neanche troppo bene, a dirla tutta – la reale natura dei rapporti che l’umano intrattiene attualmente col non-umano, rapporti di sopraffazione rinfrescati da una spruzzata di vernice verde.

È pur vero che forme di allevamento non intensive rappresenterebbero un ostacolo alla soddisfazione della domanda di “carne” attuale, viste le quantità di terra, denaro e tempo che richiederebbero, e che, quindi, l’unica forma in grado di soddisfare il “fabbisogno” mondiale è quella intensiva. Tuttavia, si deve sempre tenere a mente che la prima condizione affinchè un messaggio passi e si diffonda è la chiarezza degli obbiettivi. Tornando all’esempio del consumatore etico, come risponderemmo nel caso in cui una persona in difficoltà economiche rivendicasse il suo diritto ad acquistare “carne” proveniente da allevamenti intensivi, “carne” ovviamente molto più economica di quella “prodotta” da quei rari allevatori così ben intenzionati a “rispettare” gli animali e l’ambiente? Anche qui, il discorso necessita, al contempo, di radicalità e chiarezza.

Se le cause del cambiamento climatico risiedono proprio nell’esigenza di un’esponenziale accumulazione di ricchezza; se questa esigenza, propria del modello produttivo in cui siamo immersi, necessita di tutto un apparato ideologico, simbolico e culturale volto a legittimarla; se questo apparato ideologico prevede la riduzione pratica e simbolica a merce dell’intero vivente, allora la parola “intensivi” non è che l’espressione di una confusione teorica oramai sedimentata.

Lottare contro la distruzione della natura ad opera del Capitale non può sottintendere alcuna mezza misura. O piante, umani e animali sono sfruttabili oppure non lo sono. L’allevamento intensivo non è che una forma del dominio e ribaltare lo status quo significa avere come obbiettivo principe il Dominio in sé, che è anzitutto dominio di pratiche e di narrazioni che fanno di ogni elemento naturale – dalla formica all’essere umano alla carota – un mezzo per la produzione di profitto.

Sabato 15 Giugno è l’occasione per elaborare collettivamente un diverso modo di stare al mondo, senza strizzare l‘occhio, come fa la puntualizzazione sugli “allevamenti estensivi” nel titolo dell’evento, a quell’apparato produttivo e ideologico che ci sta facendo sprofondare in una crisi climatica, economica e sociale senza precedenti.

La rivoluzione o è totale, e quindi volta a integrare le esigenze di ogni soggettività oppressa, indipendentemente dalle modalità di oppressione, oppure non è!

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