[INTERVISTA] Antispecismo: a che punto siamo? Una chiacchierata con il filosofo Marco Maurizi

Abbiamo raggiunto il filosofo antispecista Marco Maurizi, autore, tra le altre cose, di Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, un testo fondamentale per comprendere la necessità di una riflessione strutturale di più ampio respiro riguardo lo sfruttamento animale e il modello produttivo e politico capitalistico.

VOCI SINISTRE: Proviamo a fare il punto della situazione. Al momento la pratica antispecista sembra oscillare tra due poli molto distanti tra loro: da un lato c’è un welfarismo sempre più mainstream, abbracciato da molte delle associazioni storiche animaliste e da personaggi con una discreta visibilità, spesso oggetto di dibattito in importanti trasmissioni televisive – un dibattito, diciamocelo, assai povero di contenuti validi -; dall’altro si registra un considerevole aumento delle pratiche di azione diretta, pratiche che si sono registrate nuovamente anche in Italia, con l’occupazione del mattatoio di Torino, ma che hanno visto protagonisti diversi paesi in tutto il mondo: pensiamo alle manifestazioni in Australia che hanno fatto registrare decine e decine di arresti, alle occupazioni del mattatoio di Girona, in Spagna, e di Duren, in Germania. A tuo giudizio, a che punto è il movimento antispecista, fermo restando che di “movimento” vero e proprio è difficile parlare?

MARCO MAURIZI: La situazione non è in realtà mutata molto rispetto a dieci anni fa, anche se ovviamente apprezzo il nuovo radicalismo che si sta affacciando sulla scena. Ma con alcune precisazioni e distinguo che ritengo vadano fatti. Credo che questa sorta di stallo abbia una ragione a monte e una a valle, cioè derivi sia da ciò che ha generato il sedicente “movimento” antispecista, sia il problema degli obiettivi che esso si pone o che dovrebbe porsi. Mi spiego. È senz’altro vero che la difesa degli animali non da ora è stata portata avanti dai soggetti più diversi, con metodi e obiettivi a volte lontanissimi tra di loro. Il che non deve scandalizzare più di tanto, anche al tempo dello schiavismo c’erano differenze e frizioni per quanto concerneva obiettivi e strategie di coloro che in un modo o nell’altro non accettavano il fenomeno della schiavitù. Ma il punto per noi è più problematico perché non si tratta, come troppo spesso ancora si dice, di una distinzione tra “moderati” e “radicali”. Per un verso è vero che qui abbiamo a che fare con “visioni di sistema” diverse, perfino inconciliabili, per un altro c’è da problematizzare la cosa. Partiamo dal primo punto: che differenza c’è tra un welfarista e una persona comune che vive dello sfruttamento e della morte degli animali non umani? Dal punto di vista di un antispecismo rigoroso, nessuna, si tratta solo di differenze di grado, sia di coscienza che di azione. Nessuno, o ben pochi, infatti, sarebbero disposti a sottoscrivere il programma di uno specismo estremo e violento, di affermare senza tema che vogliono che gli animali soffrano senza darsi nessuna cura del loro benessere (ho conosciuto cacciatori perfettamente convinti di essere “amanti degli animali” e un macellaio può essere, al di fuori del suo quotidiano, affezionatissimo agli altri animali, perfino soccorrerli). Il punto è che quel “nessuna cura” e il “prendersi cura” ruotano attorno ad un concetto di “benessere” ingannevole perché non mette in questione l’architettura specista della società e lo sfruttamento sistematico del vivente che ne deriva. Dunque non c’è alcuna differenza, a livello di sistema – perché ovviamente individualmente differenza c’è – tra fregarsene degli animali e prendersi cura di loro in termini di “miglioramento” delle loro condizioni di sfruttamento. Proprio la risposta che solitamente viene data dai welfaristi su questo punto (che invece per il singolo animale che vive in quelle condizioni la differenza “c’è eccome”) testimonia che non viene in alcun modo toccata la logica sistemica che produce la schiavitù animale: si potranno anche, relativamente, modificare le condizioni di vita dei singoli animali, ma non si mette in discussione il principio che ne produce l’asservimento e la morte a monte. Qui il problema, secondo me, non è nemmeno tanto che, come spesso osservano i liberazionisti, il welfarismo accontenta le coscienze e quindi non fa avanzare la lotta contro lo specismo ma la ricaccia indietro perché accetta il principio dello sfruttamento e della morte “alleviandolo” un po’. In realtà io penso che su questo punto la contrapposizione tra liberazionisti e welfaristi sia equivoca: si tratta di due piani diversi dell’azione che però andrebbero coordinati tra loro. La sinistra una volta viveva un dissidio simile nel rapporto tra tradeunionismo (sindacalismo) e politica rivoluzionaria. Si diceva: la lotta per le condizioni migliori di lavoro e di paga non può esaurire la lotta politica per la rivoluzione sociale, che si svolge su un piano diverso, più universale e sistemico. Anche in tal caso veniva spesso mossa l’obiezione che accettare miglioramenti equivaleva a porsi su un piano riformistico o opportunistico. Ma l’ideale è sempre stato di coordinare questi due livelli, perché la trasformazione della società può ricevere e dare impulso ad una generale richiesta di miglioramento delle condizioni di vita. Il problema secondo me è semmai che questa azione duplice non riesce a trovare una credibile strategia comune. E ciò accade perché la lotta contro lo specismo ancora non ha raggiunto la maturità politica di porsi come lotta per una società al di là dello specismo, cioè del dominio. In questo senso, per completare il quadro iniziale, trovo spesso che il lavoro fatto dalle grandi associazioni “welfariste” non sia affatto da buttare al secchio. E non lo dico per cerchiobottismo ma per un motivo teorico molto chiaro: queste associazioni si muovono ad un livello diverso più alto, universale, e con una modalità partecipativa che coordina gli sforzi di singoli verso obiettivi chiari a media scadenza. Molto di ciò che passa oggi per “attivismo di base” è lontano anni luce da questa chiarezza e da questa capacità organizzativa: e non è solo questione di fondi, è proprio che troppo spesso l’agitarsi confuso dei singoli che mostrano la propria rabbia e frustrazione viene scambiato per una “azione”, senza che sia dato sapere quale strategia si segua, quali obiettivi si perseguano, quali tempistiche, quali scadenze ci si immagini. La parola “attivismo” ha sempre qualcosa di inane e privo di direzione, ricorda un moto perpetuo, un agitarsi senza scopo. Spesso l’attivismo “radicale” vuole cambiare tutto, ma lascia tutto com’è. Le grandi associazioni possono essere accusate di essere moderate, pavide, contraddittorie nella loro visione di fondo e nei passi concreti con cui intendono realizzarla, ma non possono essere accusate di non sapere cosa e come realizzare gli obiettivi che di volta in volta si prefiggono. Ecco, sarebbe bello se anche l’attivismo di base sapesse riscoprire il senso dell’unità e della strategia, dell’elaborazione comune di un percorso di cambiamento sociale fatto di alleanze, tattiche, obiettivi minimi e massimi. Voler cambiare “tutto” non è sbagliato perché non è un obiettivo realistico. È sbagliato perché non è proprio un obiettivo.

VOCI SINISTRE: Una delle tesi fondamentali del tuo Al di là della natura è quella per cui “non è affatto vero che noi sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, piuttosto li consideriamo inferiori perché li sfruttiamo”, una tesi da cui si ricava direttamente la consapevolezza dell’urgenza di un cambio di paradigma produttivo e, quindi, relazionale. In Italia, il panorama teorico antispecista, seppur ancora rinchiuso nelle sue cerchie ristrette, è molto vivo, con diverse voci protagoniste; a fronte di questo, però, il dibattito sulle strategie da mettere in campo per ribaltare la realtà produttiva e puntare, finalmente, a quella che Steven Best chiamerebbe “liberazione totale”, stenta a decollare. Che spiegazione dai a questa discrepanza tra teoria e prassi e, soprattutto, è colmabile questa distanza visto lo stato teorico attuale?

MARCO MAURIZI: Il problema nasce dal fatto che, come ho detto, non si pone ad oggetto della prassi trasformatrice la società specista, bensì i singoli individui. Per poco che la società diventa veramente oggetto di una prassi di trasformazione emerge con chiarezza che la sua struttura è opaca, multidimensionale e, soprattutto, contraddittoria, esistono cioè all’interno della compagine sociale interessi diversi, contrapposti ed è su questi che occorre fare leva per operare dei cambiamenti di lungo periodo. Io apprezzo moltissimo la vivacità teorica e il livello di approfondimento che in alcune frange del movimento si fa avanti…ma ci sono due problemi. Anzitutto, si tratta sempre di minoranze illuminate che si pongono come obiettivo “ripensare la vita” alla radice, in modo profondo e creativo. Ebbene, la distanza siderale tra ciò che viene rimuginato nei cosiddetti critical animal studies e il resto del movimento, per tacere del resto della società, lascia sconfortati. Ma, e qui vengo alla seconda obiezione, il motivo di tale marginalità non è dovuto al fatto che, come ancora troppo spesso si dice, le “masse” non sono recettive, refrattarie al pensiero critico, al cambiamento ecc. Questa accusa elitista non è meno vera di quella opposta: che spesso chi lavora in ambito teorico o culturale è terribilmente autoreferenziale e tende a sublimare in astratte logomachie teoretiche problemi il cui livello di complessità va posto altrove, in quell’opacità del corpo sociale che ancora troppo spesso viene invece ignorata, immaginando che il cambiamento sociale possa conseguire more geometrico da un cambiamento di pensiero. Questa è l’essenza del pensiero liberal, secondo cui il mondo è “come ce lo immaginiamo”, l’essenziale è think different. Di fronte al fatto che la società non funziona così, non è l’esito di un processo di pensiero, né di “posture”, di abitudini performative ecc. in tutte queste varianti teoriche, la micro-fisica del potere torna a confermare il vecchio adagio secondo cui l’insieme è la somma delle parti, la società è la somma delle azioni individuali, dei pensieri individuali, delle abitudini individuali, il vecchio arnese dell’individualismo metodologico che è il vero nemico di ogni concezione politica dell’agire collettivo. Se l’apparato produttivo viene sempre e soltanto concepito in funzione del consumo (di carne, di pelle, di farmaci ecc.) non si è fatto un solo passo nel tentativo di immaginare una società autenticamente alternativa al presente, ovvero fondata su un modo di produzione diverso, non-capitalistico. A me sembra che questo nodo venga sistematicamente eluso. Con un gesto illusoriamente più “radicale” il potere socialmente strutturante del capitale viene dissolto in una trama di relazioni di potere, oppure derubricato a “uno dei tanti” problemi della prassi. Con il che il nodo di quale società stiamo immaginando e tentando di realizzare nella nostra prassi semplicemente scompare, diventa confuso, aperto alle più disparate ipotesi in contraddizione tra di loro. Il problema vero, a monte, è che questo non viene neanche percepito come un problema. In un’epoca in cui, però, il modo di produzione capitalistico sta entrando in una crisi profonda, in cui un nuovo protagonismo delle lotte – dal socialismo, al femminismo all’ecologismo – sembra emergere dalle nuove generazioni che hanno perso ogni prospettiva e, veramente, sembra non abbiano “più niente da perdere se non le proprie catene”, non capire l’urgenza di una risposta che si ponga a questo livello della crisi globale è miope. Rischia di far perdere al movimento antispecista il treno della storia. Cosa si può fare oggi? Entrare in questa grande faglia che si sta aprendo e mostrare come l’antispecismo possa offrire una risposta in termini di società ai problemi globali, mostrare nel dettaglio, attraverso un lavoro serio, duro, lungo, di ampio respiro, che la questione animale è  ciò che permette di pensare ad un cambiamento in cui l’esigenza di giustizia sociale, la politica dei corpi, la protezione della vita dalla minaccia del profitto sia originariamente pensata e accolta. Senza un tale sforzo teorico – che implica l’esigenza di concepire in termini socialisti, cioè radicalmente anti-capitalisti, il modo di produzione – nessun passo avanti sarà mai fatto. E ciò, ovviamente, implica anche il tentativo di entrare in rapporto con altri soggetti, settori sociali, gruppi di lotta che possano avere interessi tattici e strategici convergenti all’idea di una società liberata dal dominio.

VOCI SINISTRE: Se la liberazione animale può essere raggiunta soltanto sotto forma di liberazione totale e, questa, presuppone la riappropriazione radicale della propria esistenza attraverso il possesso dei mezzi di produzione da parte della classe lavoratrice, è anche vero che è necessario scontrarsi con una realtà in cui la classe lavoratrice tende a perdere progressivamente la propria unità. Contratti sempre più precari, ritmi di lavoro massacranti e che prevedono orari assurdi, la comparsa del lavoro digitale che rinchiude il lavoratore in una bolla in cui esistono soltanto lui e la piattaforma virtuale su cui lavora. Le condizioni per la coscienza di classe nel suo senso classico vengono sempre meno. Ciò, forse, sposta radicalmente il luogo delle contraddizioni dalla fabbrica (o, comunque, dal posto di lavoro) agli spazi della quotidianità, spazi in cui la convivenza tra identità molto diverse è oggi, per lo più, fonte di scontri ma, potenzialmente, può rappresentare il terreno fertile su cui far germogliare una nuova alleanza. Le periferie, luogo di contraddizioni per eccellenza, potrebbero rappresentare uno nuovo mezzo di produzione, non solo di una rinnovata identità meticcia ma anche materiale (ad esempio con la diffusione di orti urbani), di cui è necessario prendere possesso per costruire, nel tempo, una forma di potere antagonista al Capitale?

MARCO MAURIZI: Assolutamente sì. Ma occorre pensare le periferie in senso globale. Il che implica due discorsi opposti ma convergenti. Oggi la periferia geopolitica è divenuta in realtà il centro del sistema produttivo mondiale. La destrutturazione della classe operaia nei paesi occidentali è avvenuta attraverso processi di delocalizzazione ma anche di crescita mostruosa degli apparati produttivi nei paesi emergenti, dove la classe operaia continua ad esistere e continua a far sentire la propria voce a discapito dei prematuri necrologi. Scioperi in Cina, proteste coordinate dei lavoratori della grande distribuzione in diversi paesi europei ci fanno ricordare come il lavoro materiale non abbia mai cessato di essere il punto di consistenza e di debolezza dell’intero sistema. Questo va ribadito contro un’eccessiva fiducia nelle narrazioni post-operaiste o nelle propaggini anarco-desideranti-situazioniste che “smaterializzano” il lavoro e finiscono inevitabilmente nelle sacche immediatistiche del “riprendiamoci la vita” che abbiamo criticato sopra. Dall’altro lato, quanto dici è giustissimo, la desertificazione operata dal capitalismo finanziario nel corpo delle socialdemocrazie post-belliche trova nelle periferie delle grandi città un serbatoio di disperazione, una sottoproletarizzazione generalizzata che sarebbe il luogo ideale per interventi del tipo che citi. Sappiamo anche però che proprio questi luoghi destano l’interesse delle nuove destre xenofobe e sovraniste, le quali offrono parole equivoche e violente, sia chiaro, di “sicurezza” e “protezione” che a sinistra però troppo spesso vengono ancora irrise, con piglio moralistico e saccente. Ascoltare il dolore, anche quando si presenta in una forma perniciosa, addobbato dall’urlo di rabbia, è il dovere di chiunque intenda fornire a quel dolore una risposta. Anche in questo caso non mi sembra sia eludibile la doppia esigenza, di colpire il capitale là dove si auto-valorizza, dunque mettendo in atto la resistenza al suo potere disponente a livello politico generale, cercando al contempo di organizzare il lato positivo di tale resistenza negli spazi lasciati desolati e abbandonati a sé stessi dalla sua bulimia di profitto. Non è facile, perché questa desertificazione colpisce il nodo stesso delle relazioni, della capacità di creare legame tra gli individui, ma è necessario. Senza procedere in entrambi i sensi non si potrà mai muovere dalla periferia per colpire il centro del sistema produttivo, il che è necessario d’altronde perché si sblocchino le risorse in grado di permetterci di ripensare la vita non come mera forma di “resistenza”, ma attivamente, come costruzione condivisa. Anche in questo caso non dobbiamo cadere nell’illusione di fare della nostra marginalità una condizione eroica. “Periferico” e “marginale” cesseranno di indicare degli stati di minorità e di privazione solo quando non esisterà più un centro che drena le risorse come un enorme buco nero. Il compito di una politicizzazione della periferia è il superamento reale, non immaginario, della distinzione stessa tra periferia e centro.

VOCI SINISTRE: Marx ci ha mostrato come i bisogni costituiscano qualcosa di storicamente determinabile e transitorio, qualcosa la cui natura è lontanissima dall’esser fissa e immutabile. In questo senso, il bisogno di un differente modo di relazionarci alla natura e agli altri animali si presenta con ancora maggiore forza vista l’incombente crisi climatica. Come risponderesti a chi, da una prospettiva di sinistra, continua a ignorare l’urgenza di un’attualizzazione di questo assunto fondamentale del pensiero di Marx, continuando involontariamente a supportare la logica predatoria alla base del modo di produzione capitalistico?

MARCO MAURIZI: Purtroppo c’è molta poca fantasia e coraggio quando si parla di ridefinizione dei “bisogni”, il che da un lato è comprensibile, mentre dall’altro è totalmente miope e inaccettabile. È comprensibile perché finché non saremo davvero autonomi, cioè padroni di noi stessi, sottratti al potere modellante ed eteronomo del capitale, non saremo in grado di mettere in campo un’autentica “trasvalutazione di tutti i bisogni”, di immaginare e metter e in pratica un modo diverso di stare al mondo. Quindi ogni richiesta di cambiamento dei “bisogni” finisce nelle secche del moralismo, del consumo equo-solidale, del riciclo, del veganismo ecc. Tutte cose bellissime e necessarie, sia chiaro, ma non sufficienti. Finché il buco nero, l’auto-valorizzazione del capitale, non verrà sconfitto, non solo la ricchezza prodotta finirà sempre e soltanto nelle mani di pochi e condannerà i molti e moltissimi ad una vita di stenti in cui nessun bisogno si presta ad essere ridefinito, poiché l’esigenza della sopravvivenza arriverà sempre prima, ma la stessa vita subirà gli effetti distorcenti di quel centro occulto che dall’interno ci domina, ci dirige, ci seduce. Detto questo, è anche vero però che molti compagni, militanti, elettori di sinistra sono del tutto incapaci di affrontare la questione animale in modo sereno, troppo coinvolti emotivamente dal proprio stile di vita per poter pensare che possano esisterne altri, che l’umanità meriti di vivere una vita in cui si è lasciata alle spalle l’incubo della sopraffazione, in cui l’esigenza di una produzione sconfinata e senza meta sia stata soddisfatta da un modello partecipato, aperto, rispettoso dell’alterità in ogni sua forma. Chi dietro la bistecca non vede la via crucis dell’animale, non sta vedendo neanche il sistema di produzione capitalistico: si è semplicemente fermato all’apparenza e immagina, delira, che un mondo liberato dall’oppressione sarà un mondo in cui potrà continuare a fare la vita di prima, solo un po’ più protetto. Per fortuna qualcosa si sta muovendo anche in questo campo, si vedano i recenti contributi sulla “svolta animalista nel marxismo” pubblicati sulla Monthly Review. Scorporato da ogni moralismo, il problema dei bisogni è il problema centrale della lotta al sistema capitalistico, ma, proprio per questo, esso ha poco a che fare con la sfera del consumo. Riappropriarsi della vita significa in realtà riappropriarsi delle leve con cui espandere  e ridefinire i bisogni stessi. Ma si tratta di un’espansione qualitativa, non quantitativa. La qualità nuova del bisogno sorge dal suo essere radicalmente democratico, condiviso, frutto di una costruzione collettiva, di un processo aperto in cui l’umano si disfa della scorza del vecchio e si apre alla novità radicale di un legame con l’altro (altro in cui ritengo vadano incluse anche le altre specie). È questo sottofondo materialistico che mostra la rilevanza della questione animale per il marxismo. Non ci sarà nuovo bisogno se la lotta senza quartiere verso il vecchio non trionferà anche della nostra millenaria tendenza alla sopraffazione del non-umano.

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