C’è assoluta continuità tra il lavoro, il diritto alla felicità e la condizione stessa di essere umano. È questo il filo rosso che attraversa Umanità in rivolta di Aboubakar Soumahoro, edito da Feltrinelli, testo di cui si aveva un estremo bisogno e che, finalmente, ha visto la luce. Il tentativo dell’autore è quello di fornire una prospettiva diversa su quei temi che sono continuo oggetto di strumentalizzazione politica per fini elettorali e che sono volutamente trattati in maniera distinta: lavoro e immigrazione. Soumahoro ci suggerisce, invece, che sono facce di un’unica medaglia e lo fa trattando di un fenomeno che conosce molto da vicino ovvero la condizione dei braccianti agricoli. Egli è stato un bracciante e, nel testo, racconta la sua esperienza diretta.
Nato in Costa d’Avorio, si fa affascinare dai racconti di un‘Italia in cui poter andare per metter da parte due soldi grazie al lavoro nei campi; a diciannove anni parte, rendendosi conto fin da subito che la situazione non è rosea come se la aspettava: “La sensazione iniziale fu di spaesamento, mi sentivo in una condizione di temporaneità, senza luogo e fuori posto, “al confine tra l’essere e il non-essere sociale”, come ha scritto Pierre Bourdieu. Senza luogo perché avevo lasciato la terra che conoscevo per una che mi era ancora estranea, fuori posto perché ogni giorno qualcuno mi ricordava che non avevo diritto di stare dove ero”. E la situazione peggiora quando si reca al “mercato delle braccia”, il cui nome già segnala i processi di disumanizzazione che avvengono all’interno, riducendo , prima discorsivamente e poi realmente, i lavoratori a mero arto del corpo, le “braccia” appunto: “Funziona così: chi può offrire un lavoro si ferma, dà un’occhiata e sceglie, senza concordare né orario di lavoro né paga né luogo della prestazione. La sensazione è quella di essere merci esposte al mercato delle braccia, denudati della propria umanità”.
La sua esperienza diretta di lavoratore e di migrante gli permette di avere uno sguardo lucido sui profondi legami tra sfruttamento del lavoro e immigrazione: “Un lavoratore, per il semplice fatto di essere migrante, a parità di mansione percepisce generalmente un salario inferiore al suo collega italiano. Oltre a questa disparità salariale, il lavoratore straniero è maggiormente esposto a licenziamenti e a forme stratificate di ricattabilità”. La razzializzazione del lavoro, fenomeno che Soumahoro approfondisce in queste pagine anche attraverso un dettagliato excursus storico dei vari interventi politici sul tema immigrazione, si rivela essere assolutamente funzionale alle esigenze di profitto del capitale: disumanizzare un’intera categoria di individui attraverso politiche securitarie e razziste, permette ai padroni di ottenere maggiori guadagni dall’impiego di manodopera migrante.
E proprio la parola “padrone” finisce sotto la lente d’ingrandimento del sindacalista ivoriano: “[…[ non mi potevo permettere di rifiutare nessuna offerta. Riponevo tutta la mia speranza nel datore di lavoro di turno, o forse sarebbe meglio chiamarlo “padrone”, se la parola oggi non apparisse fuori moda. Parlare di sfruttamento per molti significa essere ideologici. Al contrario, temo che sia “ideologico” rifiutare di vedere forme di organizzazioni sociali e del mercato che consentono a pochi di disporre delle vite degli altri”. La mutazione linguistica degli ultimi decenni, una mutazione profondamente politica, ha permesso di depotenziare notevolmente le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici; chiunque chiami le cose col proprio nome non è che un nostalgico, vittima di un’ideologizzazione che pretenderebbe di rivoluzionare l’intero modo di produzione.
Beh, in questo caso, Soumahoro è un nostalgico, uno che chiama le cose col proprio nome, uno che non ha paura di esporsi proferendo parole che la sinistra, sempre più asservita alla logica neoliberista, ha dimenticato, uno che ha in testa un programma ben preciso: “Il primo punto è semplice, è un principio che non dovrebbe mai essere messo in discussione: “uguale lavoro, uguale salario”. Un lavoro dignitoso e una giusta paga, indipendentemente dalla provenienza geografica dei lavoratori e delle lavoratrici. Il secondo punto è la garanzia del rispetto degli oneri a carico dei datori di lavoro: diritti salariali previdenziali (quindi disoccupazione agricola), sicurezza sul lavoro e il trasporto. Devono essere riconosciute le ore e le giornate effettivamente lavorate, rendendole evidenti in busta paga. Il terzo punto imprescindibile per una riforma che rispetti i diritti di tutti è la “regolarizzazione” di migranti e profughi, nonché l’abrogazione della legge Bossi-Fini, l’accesso al permesso di soggiorno per la protezione sociale e la rottura del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro”.
Ma Umanità in rivolta, oltre a essere attraversato dal racconto della vita dell’autore, è anche vetrina per altre storie, meno note, distorte o passate in sordina da un apparato mediatico concentrato più sul costruire e supportare un determinato tipo di narrazione che sul fare corretta informazione. È il caso della storia di Soumaila Sacko, bracciante ucciso a colpi di fucile mentre cercava lamiere con cui costruire un riparo nella baraccopoli di San Ferdinando; è il caso di Jerry Essan Masslo, morto per essersi opposto a un tentativo di rapina nel ghetto di Villa Literno; è il caso di Becky Moses, una delle tante vittime dei roghi nella baraccopoli di San Ferdinando; è il caso di Paola Clemente, deceduta sul posto di lavoro a causa della totale assenza di mezzi e strumenti di primo soccorso, e delle sedici vittime della tragica estate pugliese del 2018; è il caso di Abd Elsalam, morto investito da un camion durante un picchetto dei lavoratori della logistica; è il caso di Alberto Piscopo Pollini, morto a diciannove anni in strada mentre svolgeva il suo lavoro di rider.
Queste storie non hanno soltanto il merito di far conoscere eventi spesso ignorati ma anche quello di ribaltare il soggetto narrante. Soumahoro è lucidissimo quando riflette sul pericolo reale di veder colonizzata la lotta dei migranti e delle migranti: “Abbiamo dovuto lavorare molto per riuscire a prendere la parola in prima persona nei luoghi e negli spazi politici. Per molto tempo, tanti in buona fede hanno ritenuto doveroso prendere la parola al nostro posto. Mi viene da dire che il pensiero di deriva paternalista a volte contamina involontariamente chi è impegnato in difesa dei migranti, che vengono ritenuti incapaci di generare, esprimere e declinare un pensiero politico e una forma di lotta”. Un discorso, questo, che vale anche per i lavoratori e le lavoratrici. Il progressivo aumento della distanza tra la classe lavoratrice e i suoi organi di rappresentanza, i sindacati, ha fatto sprofondare in uno stato di profonda solitudine esistenziale il lavoratore e la lavoratrice, privi di qualsiasi appiglio e sostegno, atomizzati e impotenti di fronte a una classe padronale sempre alla ricerca di nuovi modi per generare maggior plusvalore.
Il diritto alla felicità, menzionato nel sottotitolo, vede nella solitudine il più grande ostacolo. È forse questo il più importante contributo di Umanità in rivolta. Il vuoto esistenziale in cui galleggiamo spaesati è generato da una situazione umanamente insostenibile, una situazione che rende succubi di forze che non hanno quasi più neanche nome e cognome ma la forma matematica di bilanci, prospettive di crescita, percentuali, PIL. La riappropriazione dell’esistenza collettiva, soprattutto di fronte all’incombente crisi climatica, passa per l’unione di una classe lavoratrice globale, meticcia e multilingue, una classe lavoratrice che sappia coniugare la soddisfazione dei bisogni di tutte e tutti con la necessità di ristabilire l’equilibrio degli ecosistemi e di salvaguardare il nuovo soggetto comparso sul tavolo della Storia: il mondo non umano.
“Cos’è un uomo in rivolta?” si chiede Albert Camus, più volte citato da Soumahoro. Beh, un uomo in rivolta è un uomo che esiste. “Mi rivolto, dunque siamo” afferma il filosofo algerino, trasformando radicalmente il Cogito cartesiano. È giunta l’ora d’interrogarsi sulla natura di quel “siamo”. Cos’altro può essere, oggi, se non l’urgenza di una rivoluzione dell’intero vivente contro una macchina capitalista che stritola umani, animali e una natura al collasso? Cos’altro se non la vittoria su una solitudine annichilente, la vittoria su una solitudine tutta umana che ha fatto della natura un’avversaria anziché un’alleata? Cos’altro può essere?