Quando il neo-malthusiano Thanos, alla fine di Avengers Infinity war, riesce a raccogliere tutte le gemme dell’infinito e a realizzare il suo piano di sterminare metà dei viventi dell’intero universo, la svolta narrativa che si prospetta non è affatto scontata: una squadra di supereroi provenienti da ogni parte della galassia è costretta a soccombere di fronte allo strapotere di un cattivo mai così forte. Le ultime scene sono quasi strazianti, con molti dei protagonisti che si sbriciolano in un batter d’occhio, cosa, questa, davvero insolita se si pensa che, dal 2009, produzione e distribuzione della serie sono nelle mani, oltre che di Marvel Studios, anche di The Walt Disney Studios, che non ha perso occasione per rimarcare la sua presenza con scenette a dir poco fuori luogo in uno scenario dal sapore apocalittico.
Dopo aver fatto schioccare il guanto con le gemme e aver dimezzato la popolazione dell’universo, Thanos si ritira in una capanna a contemplare serenamente la prosperità di una natura finalmente liberata dal cancro della sovrappopolazione e della conseguente scarsità di risorse.
Durante la proiezione, dalle poltrone del cinema si respirava un’aria di incredulità: “Non può finire così!” dicevano in molti. Tempo qualche minuto ed ecco che Stan Lee e soci accontentano gli spettatori trepidanti con una scena che rimuove il punto messo dal Thanos contemplante per trasformarlo in un punto e virgola: Nick Fury, direttore dello S.H.I.E.L.D., un secondo prima di sbriciolarsi, aziona un cercapersone sul cui schermo compare un simbolo mai apparso prima e che solo in seguito si scoprirà essere quello di Captain Marvel, al secolo Carol Danvers, pilota dell’aereonautica militare statunitense investita dalle radiazioni prodotte dall’esplosione del reattore di un motore a velocità della luce, esplosione che le ha donato poteri incredibili.
Tra Thanos che si riposa beato dopo il lavoro svolto e Fury che attiva il cercapersone, scorre il flusso filosofico dell’intera saga. È chiaro che non si è di fronte all’ultima stagione di Twin Peaks di David Lynch o ad Arrival di Villeneuve. Tuttavia, pur se privo di intenti filosofici chiari, il filone cinematografico che va dal primo film di Iron Man ad Avengers Endgame offre spunti interessanti o, meglio, avrebbe potuto. Già, perché gli ultimi minuti di Infinity war sono un vero e proprio colpo di scena narrativo, riassumibile nell’idea che anche i supercattivi, ahinoi, vincono. Un elemento, questo, di un realismo estremo, dalla potentissima carica esistenziale, capace di traslare su di un terreno positivamente fantascientifico e impregnato di speranze sempre più utopiche, la realtà della disperazione, dell’impotenza, dell’inefficacia del Bene.
Lo sbriciolarsi di mezzo universo mette il vivente che sopravvive nella più classica delle situazioni: la solitudine. Come reagire a una condizione simile? Come elaborare un lutto così grande? Si potrebbe pensare che dei supereroi, che di morti ne hanno visti e prodotti a secchiate, abbiano tutte le carte in regola per rapportarsi a un evento di questo tipo, che sappiano riprendersi al più presto provando a ricostruire su quel poco che è rimasto. Niente di più lontano dalle intenzioni dei Marvel Studios che, piuttosto che rivoluzionarsi rompendo quella tradizione che vede il Bene vincere sul Male, piuttosto che portare nelle sale un prodotto cinematografico di una qualità narrativa superiore, preferiscono riscaldare per l’ennesima volta una minestra un tempo saporita ma oramai insipida.
Ecco, quindi, Avengers Endgame, ultimo episodio di una saga lunga ben 22 film – in realtà sono previste altre uscite, tutte però collaterali al filone narrativo centrale -, una saga che, ahinoi, avrebbe dovuto “chiudere i giochi” con Infiniti war. Cosa potrà mai esserci oltre lo sterminio di metà dell’universo conosciuto e sconosciuto? La trovata non è poi così geniale: stanare Thanos lì dove si è nascosto – in una catapecchia di legno a cucinarsi non si capisce bene cosa. Verrebbe da chiedersi: “Caro Thanos, hai fatto tutto questo casino per giocare a fare l’eremita?” -, farsi dire dove ha messo le gemme dell’infinito, trovarle e utilizzarle per riportare in vita la metà della popolazione dell’universo scomparsa. Chissà se il buon Akira Toriyama, creatore di Dragon Ball, denuncerà la Marvel per plagio!
Perché, sì, Endgame non è che la riproposizione occidentale del manga giapponese nato circa 35 anni fa. E, come in Dragon Ball la ricerca delle sfere del drago era costellata da contrattempi e ostacoli, anche la strada per le gemme dell’infinito non è lineare: Thanos, infatti, le ha distrutte subito dopo averle utilizzate. Ecco un’altra occasione per rassegnarsi a ciò che è stato, provando, finalmente, ad andare avanti. Ma no, il Bene deve vincere a tutti i costi, anche se ciò comporta delle forzature della trama quasi imbarazzanti. Entra, quindi, in scena un topo – sì, avete letto bene, un topo – che, vagando per un magazzino in cui sono state ammucchiate le cose dopo l’apocalisse thanosiana – la scena si svolge 5 anni dopo gli eventi di Infinity war -, finisce accidentalmente sulla pulsantiera del furgoncino con cui Ant-Man e compagni si divertivano a saltare nel regno quantico, calpestando a caso i tasti ed espellendo Scott Lang, rimasto incastrato lì dentro dal “grande dimezzamento”. Da qui c’è un’escalation di nuove speranze: Ant-Man si presenta nell’ufficio di Black Widow che, come gli altri, lo credeva morto; insieme vanno da Hulk, che ha finalmente trovato il modo di far convivere la sua parte verde con quella umana, proponendogli di costruire un tunnel quantico per tornare indietro nel tempo, recuperare le gemme ancora intatte e far resuscitare tutti; dopo vari tentativi, a cui, in un secondo momento, si unisce un Tony Stark inizialmente scettico, riescono nell’impresa; riuniscono perciò la squadra, andando a raccattare un Thor depresso ed esageratamente ingrassato – vagamente somigliante a Jeffrey “Drugo” Lebowski – a New Asgard, presumibilmente in Norvegia, in cui il popolo di Asgard si è rifugiato dopo i fatti di Ragnarok.
Il resto è facilmente prevedibile e, a dir la verità, piuttosto godibile, con virate, non prive di inciampi, verso i sempre affascinanti intrighi del rapporto spazio-tempo – non si poteva certo pretendere di più, non tutti i film sono Interstellar -, con effetti speciali come sempre mozzafiato e un’insolita e inaspettata mescolanza di poteri – Captain America, a un certo punto, riesce a brandire e governare il martello di “Drugo” Thor -.
Insomma, come da copione, il Bene vince e il Male perde. Ed è questo il problema: se è vero che le pellicole e i fumetti dei supereroi sono spesso concepiti per svolgere un ruolo pedagogico, con messaggi di giustizia, uguaglianza e fratellanza, è d’altra parte vero che non c’è niente di più anti-pedagogico dell’illusione che tutto, alla fine, si risolverà sempre per il meglio.
Educare alla realtà significa educare ad affrontare la realistica possibilità di non vincere. O, comunque, questa è l’idea di chi, alla soglia dei trent’anni, non si lascia ancora scappare l’opportunità di veder prevalere il Bene sul Male, anche se sullo schermo di un cinema di periferia che cade a pezzi.