[INTERVISTA] Rom, migranti e dintorni. Conversazione con l’antropologo Andrea Staid.

Abbiamo raggiunto Andrea Staid, antropologo e docente di antropologia culturale e visuale presso la NABA di Milano, autore di diversi libri tra cui Abitare illegale, I dannati della metropoli e, da poco pubblicato per Meltemi, Contro la gerarchia e il dominio.

VOCI SINISTRE: Negli ultimi tempi le periferie romane sono in subbuglio. Prima alcuni residenti di Torre Maura, fiancheggiati dall’estrema destra, si sono opposti all’arrivo di 60 persone rom nel vicino centro di accoglienza; poi, a Casal Bruciato, alcuni abitanti, anche qui spalleggiati da Casapound & Co., si sono mobilitati contro l’assegnazione di un alloggio popolare a una famiglia rom di cinque persone, regolarmente inserita nelle graduatorie e in possesso di tutti i requisiti per beneficiarne. Che idea ti sei fatto di questi eventi?

ANDREA STAID: Sicuramente Casapound e l’estrema destra hanno una particolare forza nel Lazio. Va precisato, però, che ciò che è avvenuto non è un’esclusiva delle periferie romane; le stesse cose, purtroppo, sono successe in giro per l’Italia. L’idea che mi sono fatto di questa situazione è che c’è chi della paura, della discriminazione, della differenza su base di provenienza e non su base di classe ha costruito la propria forza politica. Non avendo, dal mio punto di vista, niente da dire, l’unico modo che hanno per fare proselitismi è puntare sull’odio, fomentando la paura. Questo fa Casapound, questo fa da sempre l’estrema destra. Quindi, in realtà, siamo di fronte a una tecnica collaudata e usata in tutta Italia, se non in tutta Europa, una tecnica che punta a fare gruppo costruendo un’identità forte ed escludente che appunto, in questo caso, è quella di “Noi” contro “Loro”, dove “Loro” sono gli immigrati, i rom o, comunque, tutte le minoranze più fragili.

VOCI SINISTRE: In “Abitare illegale” definisci i rom un popolo-resistenza ovvero un popolo che preferisce l’esclusione all’assimilazione da parte di un sistema culturale egemone, in questo caso quello dei gagè. Leonardo Piasere, nel suo “I rom d’Europa”, afferma che è difficile quantificare quanto questa resistenza a una cultura considerata folle sia cosciente  e non sia, piuttosto, una semplice difesa della propria identità. Dov’è, a parer tuo, il confine tra quella che potremmo benissimo considerare una lotta politica contro un sistema assimilazionista, dedito al genocidio culturale, e la mera preservazione della propria cultura?

ANDREA STAID: Anzitutto mi preme sottolineare il fatto che non sono un esperto del mondo rom e sinti. Posso parlare delle comunità che ho incontrato che sono, appunto, comunità rom e sinti di Milano e Pavia. Non vorrei, quindi, universalizzare un discorso che sarebbe quasi pericoloso fare perché, come non esistono gli italiani come popolo unito o monoblocco identitario, come non esistono i tedeschi ma tante culture e sottoculture dello stesso popolo, la stessa cosa, ovviamente, vale per rom e sinti, essendo umani esattamente come tutti gli altri e quindi culture in transito permanente. Credo di poter dire che, per le persone che ho incontrato e per una buona percentuale dei rom e sinti che vivono in Italia, sicuramente c’è una resistenza abbastanza cosciente, un tentativo di “diserzione” da quello che può essere un sistema assimilazionista come il nostro; non hanno accettato di essere integrati in quello che è il nostro modo di pensare la comunità, il nostro modo di abitare la città. Detto questo, sicuramente, da una parte, c’è questo fenomeno di resistenza, dall’altra c’è anche il cercare di preservare un’identità. Non so quanto questo sia cosciente, almeno all’interno dei mondi che ho conosciuto io. Molto spesso vi è proprio una costruzione quotidiana fatta da tanti piccoli rituali di resistenza che li portano a vivere un modo di approcciarsi alla vita di tutti i giorni differente dal nostro. Credo, quindi, che si situino in una sorta di via di mezzo: da un lato c’è la resistenza a quello che, nella domanda, definite come “genocidio culturale”, dall’altra, però, c’è anche la difesa di un’identità diversa dalla nostra.

VOCI SINISTRE: A Torre Maura, in un’intervista a un’abitante della zona, è emersa una distinzione rilevante tra l’approccio che i residenti hanno nei confronti dei rom e quello che, invece, hanno nei confronti dei migranti. La signora ha infatti affermato che i “negri”, pur vivendo in un centro d’accoglienza, non hanno mai dato fastidio a nessuno, anzi aiutavano le signore anziane a portare la spesa fino a casa. Riguardo l’arrivo dei rom, i sentimenti della signora erano totalmente opposti, nonostante questi non avessero ancora messo piede nel quartiere. Se il migrante, come dice Bordieu, è atopos, fuori luogo, il rom, oggetto di discriminazione anche da parte di chi spesso si definisce antirazzista, cosa rappresenta? Il suo essere, per così tanto tempo, rappresentante di forme alternative di mobilità e di abitare, ne fa una sorta di “paradigma dell’Altro”?

ANDREA STAID: Sì, capita spesso che persone non razziste abbiano un atteggiamento di mancata accettazione verso i rom. Detto questo, però, capita la stessa cosa anche con altre divisioni a seconda delle provenienze. Mi è capitato moto spesso di sentir dire a delle persone: “Ah, no, ma i senegalesi sono bravi, sono i marocchini, invece, quelli cattivi”. Una cosa certa è che, tendenzialmente, rom e sinti sono fra i più odiati. Credo non ci sia, però, una differenziazione legata a chi sono loro, a come vivono il mondo, al loro nomadismo forzato, al loro modo di abitare; c’è, piuttosto, una costruzione mediatica e politica che da sempre – perché da sempre esiste questa problematica con i rom – punta il dito soprattutto contro queste comunità. Non penso che sia un qualcosa di specificatamente anti-rom o anti-sinti. Se per i prossimi due secoli, giornali e politici decidessero di discriminare soprattutto i polinesiani o gli abruzzesi, sicuramente gli abruzzesi o i polinesiani diventerebbero quelli di cui aver più paura. Sono quindi convinto che tutto stia nelle mani di chi crea queste politiche e queste narrazioni della paura.

VOCI SINISTRE: Centrale nei tuoi lavori “Abitare illegale” e “I dannati della metropoli” è il concetto di spazio. Da Bookchin a Lefebvre, fino ad Harvey, non pochi autori si sono concentrati sull’idea di uno spazio nuovo, di uno spazio che riesca a superare le contraddizioni e a creare i presupposti di un’esistenza realmente comune (ciò è ancor più attuale se si pensa all’incombente crisi climatica e alla crescente attenzione verso il mondo animale). Quali forme e relazioni deve assumere, secondo te, lo spazio per incarnare lo status, tra gli altri, di elemento rivoluzionario?

ANDREA STAID: Sono diversi anni che mi concentro sulla questione dell’abitare, inteso nelle sue declinazioni di spazio attraversato, abitato, dell’incontro all’interno di spazi, soprattutto quando questi sono ripensati, risignificati e acquisiscono un nuovo modo di pensare, di immaginare futuri e la costruzione comunitaria dell’avvenire. Sono convinto che sia necessario ribaltare il concetto di abitare occidentale, che troppo spesso significa solamente avere una casetta in cui rinchiudersi, e pensare invece all’abitare come uno spazio di relazioni, competenze, saperi condivisi e, soprattutto, uno spazio abitativo che abbia a che fare con il cambiamento, con il ripensamento, come la stessa radice etimologica suggerisce (“abitare”, avere consuetudine di un luogo, ma anche habitus, ovvero quel complesso di caratteri morfologici o di comportamento di un individuo o più genericamante un’attitudine, una tendenza che si riferisce anche agli abiti che indossiamo quotidianamente). Credo, quindi, che una cosa importante per rendere gli spazi degli elementi di mutazione culturale sia quella di ripensarsi in luoghi dove lo spazio sia effettivamente condiviso, dove il concetto chiave sia quello di condivisione con l’Altro, dove gli spazi comuni siano molti, dove le relazioni tra umani, animali e vegetali non si riducano a relazioni mercificanti e mercificate, ma siano scambi che generino, per i soggetti coinvolti (per soggetti, in questo caso, intendo sia gli animali umani che gli animali non umani), delle relazioni orizzontali, relazioni in cui poter pensare, insieme, un modo differente di abitare il mondo. In Abitare illegale faccio tanti esempi di quelli che, secondo me, sono dei laboratori di esperienze che, nel qui e ora, cominciano già a cambiare e ripensare gli spazi per vivere altrimenti, cioè per vivere fuori da quelle norme che l’Occidente e, più in generale, il capitalismo, ormai diffuso in tutto il mondo, ha insinuato nella maggior parte dei luoghi in cui vive l’essere umano. Credo, perciò, che dagli spazi, dal modo di concepire lo spazio abitato e, quindi, l’abitare dell’essere umano, possa partire un vero cambiamento, un cambiamento che deve essere in stretto contatto con dei concetti di ecologia sociale, un approccio alla società ricostruttivo, ecologico, comunitario ed etico, non di una ecologia mainstream, di capitalismo verde o green economy, ma proprio di un ripensamento del concetto stesso di progresso che, dal mio punto di vista, deve essere sempre più un frenare, un fare meno, piuttosto che un fare di più, un rispetto della natura e degli animali, un ripensare l’assurdità di vivere tutti rinchiusi nei propri appartamenti quando invece si dovrebbe ripensare la possibilità di mettere al centro la parola e l’esperienza pratica della condivisione.

Andrea Staid è docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, ricercatore presso Universidad de Granada, dirige per Meltemi la collana Biblioteca /Antropologia. Ha scritto: I dannati della metropoli, Gli arditi del popolo, Abitare illegale, Le nostre braccia, Senza Confini, Contro la gerarchia e il dominio. I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna e adottati in varie facoltà universitarie. Collabora con diverse testate giornalistiche tra le quali: Il Tascabili, Left, LA ricerca, A rivista.

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