“Questo libro intende riaprire la questione del mondo a partire dalla vita delle piante.” È questo l‘intento di Emanuele Coccia dietro il suo La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, edito da il Mulino, un testo che alterna spunti interessanti – non molti, a dire il vero – a rovinose cadute teoriche e stilistiche – queste, sì, parecchie -. Cominciamo da queste ultime.
Partiamo col dire che in un libro di 149 pagine, di cui 28 di sole note, la frequente ripetizione di uno stesso concetto può far sorgere il sospetto che l’autore, al di là di questo, non abbia poi molto da esporre – Fusaro è probabilmente il recordman ufficiale in questa disciplina. Avete mai dato una sbirciatina ai suoi libri? Speriamo per voi di no -. Il concetto ripreso circa ventisette volte – le abbiamo contate ma sicuramente ce ne è sfuggita qualcuna –, seppur, di volta in volta, esposto con parole diverse, è questo: tutto è in tutto. “L’acqua di cui il mare è costituito non è semplicemente di fronte al pesce-soggetto, ma è in lui, nell’atto di attraversarlo, di uscirne”; “L’immersione è, prima di tutto, un’azione di compenetrazione reciproca tra soggetto e ambiente, tra corpo e spazio, tra vita e milieu”; “Se l’ambiente non inizia al di là della pelle del vivente, è perché il mondo è già all’interno di esso”; “Se gli organismi riescono a definire la propria identità grazie alla vita di altri viventi, è perché ogni vivente vive già da sempre nella vita altrui”; “Il mondo è lo spazio della mescolanza universale, dove ogni cosa contiene ogni altra cosa ed è contenuta in ogni altra cosa”; “Ogni organismo non è che l’invenzione di un nuovo modo di mescolarsi col mondo e di consentire al mondo di mescolarsi all’interno”; “La ragione non è che questa pluralità di strutture cosmiche di attrazione che consentono agli esseri di percepire e assorbire il mondo, e al mondo di essere interamente in tutti gli organismi che lo abitano”. E ci fermiamo qui, anche se potremmo andare avanti ancora per molto.
Non va meglio quando, anziché concentrarsi sulla (non)originalità e la (non)varietà dei concetti, ci si sofferma sui termini utilizzati: “essenza della fluidità cosmica”, “processo cosmico di fluidificazione dell’universo”, “infinita e universale compenetrazione delle cose”, “forze cosmiche”, “natura astrale”. Il continuo rimando all’universo new age è lampante, un rimando non solo terminologico ma anche teorico.
La tesi fondamentale del libro è questa: la scarsa considerazione della complessità del mondo vegetale non permette di cogliere il ruolo fondamentale delle piante nella creazione e nella preservazione del mondo che conosciamo e, di conseguenza, non ci permette di comprendere pienamente cosa sia il mondo. Infatti, le piante “trasformano in vita tutto ciò che toccano, facendo della materia, dell’aria, della luce solare, ciò che per il resto dei viventi diventerà lo spazio da abitare, il mondo”. Una tesi sacrosanta, verrebbe da dire. Peccato che, per sostenerla, Coccia utilizzi forzature metafisiche per nulla necessarie: “La fotosintesi è il processo cosmico di fluidificazione dell’universo, uno dei movimenti attraverso cui il fluido del mondo si costituisce”; e ancora: “Nel respiro, in un attimo, il vivente e il cosmo si ricongiungono, e sigillano un’unità diversa da quella che segna l‘essere o la forma”. Di nuovo, peccato! Perché è verissimo che “le piante impongono così alla biologia, all’ecologia, ma anche alla filosofia, di ripensare di nuovo le relazioni che intercorrono tra mondo e vivente”, ed è verissimo, in particolare, nel momento storico che stiamo attraversando, in cui il collasso climatico è dietro l’angolo e urge un ripensamento radicale dei rapporti.
Rapporti che l’antispecismo, nella sua forma attuale, nonostante i proclami, non sta ribaltando del tutto. Non si può non dare, in parte, ragione all’autore quando afferma che “l’animalismo antispecista rischia spesso di scivolare in un antropocentrismo illuminato, che ha interiorizzato il darwinismo per estendere il narcisismo umano al regno animale”, escludendo, quindi, la considerazione dell’universo vegetale. Posto che, qualche pagina più avanti, in una nota, Coccia dimostra di conoscere assai poco ciò di cui parla, confinando l’antispecismo alle elaborazioni teoriche morali e ignorando, del resto, quelle di stampo fortemente politico; posto anche che, da un professore universitario che ha insegnato in mezza Europa, non ci si aspetterebbe l’utilizzo della fallacia naturalistica, come quando afferma che: “Il dibattito animalista […] sembra dimenticare che l’eterotrofia presuppone la messa a morte di altri viventi come dimensione naturale e necessaria di ogni essere vivente”; posto questo, il filosofo centra involontariamente un punto su cui l’antispecismo è chiamato a riflettere. Non è, infatti, più il tempo di limitarsi a dire: “le piante non soffrono perché, a differenza degli animali, non possiedono un sistema nervoso centrale, né organi preposti alla percezione del dolore”; questa argomentazione, come giustamente rileva Coccia, mette in luce l’ostinazione “a voler ritrovare [nelle piante] organi analoghi a quelli che rendono possibile la percezione negli animali, senza compiere lo sforzo di immaginare, a partire dalle piante e dalla loro morfologia, un’altra forma possibile d’esistenza della percezione, un altro modo di pensare la relazione tra sensazione e corpo”. Non è neanche più il tempo di limitarsi a dire che lo sfruttamento animale è la principale causa di deforestazione e di impiego di ingenti quantità di vegetali usati come nutrimento per gli animali allevati. È il tempo, invece, di proporre un diverso modello relazionale con l’intero vivente, un modello che coinvolga l’organizzazione produttiva e la redistribuzione della ricchezza, la configurazione spaziale e la preservazione degli ecosistemi, e che tutto ciò generi, come conseguenza, un modo radicalmente diverso di percepire l’Altro, sia esso animale o vegetale.
Particolarmente apprezzabile è, invece, l’ultima sezione del libro, in particolare il capitolo Autotrofia speculativa, pagine in cui l’autore, ricordando alla lontana – ma molto alla lontana! – il buon Michel Foucault, lancia una critica allo specialismo accademico, alla rigida divisione dei saperi: “La specializzazione è la traduzione epistemologica di un ideale corporativista del sapere – la formazione dei sapienti in comunità giuridicamente chiuse”. Ecco, quindi, l’importanza della filosofia: “Se la filosofia può rivendicare un rapporto privilegiato con la verità, se è questo desiderio – e non un metodo, una disciplina, un protocollo, una procedura – che saprà portarci più vicino alla realtà, è perché il mondo è lo spazio dove cose e idee sono mescolate in maniera eterogenea, disparata, imprevedibile”. Anche in queste ultime pagine, ahinoi, l’autore ritiene di dover precisare un concetto: “Questo perché ogni verità è legata a ogni altra verità allo stesso titolo con cui ogni cosa è legata a ogni altra cosa” – Verrebbe da strillargli in un orecchio: “Abbiamo capito!” -.
Per tirare un bilancio approssimativo di questo testo possiamo concludere che ciò che di buono Emanuele Coccia ha da dire, ha poco a che vedere con l’intento iniziale del libro; nessuna questione del mondo è stata riaperta, né una nuova metafisica ha visto la luce – ne abbiamo, del resto, davvero bisogno? -. Ciò che di positivo si può trarre da queste pagine è lo stimolo imprevisto scaturito dai temi periferici del testo, su tutti l’antispecismo, a cui l’autore intendeva fare uno sgambetto ma a cui invece, per usare una metafora vegetale, dà la possibilità di trarre nuova linfa per svilupparsi e rafforzare il proprio impianto teorico.

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